5  Le biotecnologie molecolari

Considerando i vari livelli di organizzazione dei viventi, si può affermare che il livello cellulare [  30  ] manifesta un sottostante livello di organizzazione interna definito molecolare.
Lo studio circa la struttura e le relazioni che intercorrono fra le molecole organiche complesse presenti nella cellula è obiettivo primario della biologia molecolare il cui dogma centrale (“un gene-una proteina”) stabilisce come, nei sistemi biologici, il flusso delle informazioni passi dal DNA all’RNA e da questo alle proteine.
Queste molecole hanno dimensioni gigantesche e sono definite macromolecole: esse hanno un ruolo determinante nel regolare tutte le attività della cellula e dell’intero organismo e vengono sintetizzate solo dagli esseri viventi essendo caratterizzate, nella loro composizione chimica, dalla presenza del carbonio (elemento che ha la capacità di instaurare un numero molto elevato di legami chimici).
Una sempre più approfondita conoscenza delle parti elementari e dei modi in cui queste molecole si integrano e si organizzano, nonché dei fattori dell’eredità (cromosomi, geni) e delle loro funzioni nella variabilità genetica che si verifica nel prosieguo delle generazioni, consente di raggiungere risultati sempre più efficienti nei confronti delle attività umane: in ambito sanitario (vaccini più sicuri, medicinali contro disfunzioni metaboliche a base genetica, antitumorali più efficaci e meno dannosi per l’organismo, stimolatori delle difese immunitarie) e agroambientale (sviluppo di metodiche di biomonitoraggio e biorisanamento tramite l’impiego di enzimi e microrganismi procarioti ed eucarioti).
Le modalità d’indagine applicano tecniche che provengono anche da varie altre discipline, quali la biochimica, la fisica e la genetica e trovano applicazione nell’ingegneria genetica (detta anche tecnologia del DNA ricombinante) e nella biotecnologia molecolare.
Poiché, per gli studi di biologia molecolare, le strumentazioni attuali non riescono a identificare e a utilizzare soltanto poche molecole di DNA, è stata messa a punto (cosa che è di fondamentale importanza) la tecnica della PCR che consente di avere una grande quantità di copie di una molecola dell’acido nucleico.

     La reazione a catena della polimerasi
Comunemente nota con l’acronimo PCR, è una tecnica di biologia molecolare che consente la moltiplicazione (amplificazione) di frammenti di acidi nucleici dei quali si conoscano le sequenze nucleotidiche iniziali e terminali.
L’amplificazione mediante PCR consente di ottenere in vitro molto rapidamente la quantità di materiale genetico necessaria per le successive applicazioni. Il processo di amplificazione del DNA avviene in natura per azione di enzimi speciali chiamati DNA polimerasi, capaci di sintetizzare una nuova molecola di DNA purché siano disponibili nucleotidi in forma di desossiribonucleotidi-trifosfato (dNTP) e qualora le eliche del DNA da replicare siano separate.
Non è possibile sintetizzare una molecola ex novo, ma solo prolungare quella esistente in idonee condizioni (temperatura e pH).
La tecnica di laboratorio prevede in prima fase la denaturazione del DNA (fase 1) alla temperatura di 94-99 °C, detta temperatura di fusione, cioè la separazione dei due filamenti della doppia catena [  31  ].
Segue poi la fase di annealing (fase 2), ossia l’appaiamento di tratti complementari della catena aperta con brevi sequenze dette primer, lunghe in genere 20-30 basi e possibilmente senza sequenze complementari reciproche per evitare il rischio che si aggreghino tra loro, anziché sulla molecola di DNA da duplicare.
È quindi indispensabile - per produrre artificialmente i primer e averli a disposizione nei laboratori - conoscere almeno in parte la mappa del DNA da testare (attualmente in commercio sono disponibili primer per moltissime specie di organismi).
I primer costituiscono l’innesco per la riproduzione del DNA e il processo avviene a una temperatura di 30-65 °C.
Segue l’estensione (fase 3), che consiste nella replicazione di tratti dei filamenti per mezzo dell’enzima polimerasi in presenza di nucleotidi (come è detto, in natura il processo di amplificazione avviene per merito di speciali enzimi chiamati DNA polimerasi); in laboratorio, attualmente è impiegato l’enzima Taq-polimerasi che ha un picco di efficienza attorno ai 75-80 °C e ha un tasso di errore nella replicazione molto basso. In questa fase la temperatura è nuovamente rialzata per ottimizzare l’attività
dell’enzima.
Il ciclo viene ripetuto parecchie volte, 20-30 volte e anche più (exponential amplification) [  32  ] (in teoria, ad ogni ciclo il DNA campione dovrebbe raddoppiare, ma in pratica non è così ed esistono formule matematiche per valutare l’efficienza dell’amplificazione) finché non si ottiene la quantità di DNA prevista dai protocolli.
La quantità iniziale di materiale bersaglio è bassissima, fino all’ordine di 10 ng; anzi, quantità di DNA di partenza relativamente alte possono far diminuire la resa del processo a causa della presenza di contaminanti.
La lettura dei risultati è realizzata per mezzo di elettroforesi su gel o capillare 33  ]; quest’ultima impiega come mezzo separativo una colonna capillare di silice fusa: gli analiti, per azione di un campo elettrico, migrano da una estremità all’altra della colonna e vengono letti in base al loro assorbimento di luce (lettura elaborata da un computer e registrata in forma grafica).

FOCUS

REAZIONE A CATENA DELLA POLIMERASI INVERSA
Una variante della tecnica della reazione a catena della polimerasi (PCR) è la reazione a catena della polimerasi inversa o Reverse transcriptasepolymerase chain reaction (RT-PCR).
Essa consiste nella sintesi, mediante il processo di retrotrascrizione, di una molecola di cDNA a doppio filamento a partire da uno stampo di RNA amplificato mediante PCR classica. Tale tecnica è sfruttata in laboratorio per studiare l’espressione genica di un organismo.
Ultimamente è utilizzata per il rilevamento di RNA virale allo scopo di diagnosticare la malattia causata dal coronavirus SARS-CoV-2. Il test RT-PCR può essere eseguito su campioni respiratori ottenuti con vari metodi, tra cui un tampone rinofaringeo o un campione di espettorato.

     Sequenziamento
Il sequenziamento è una tecnica che serve a stabilire, con precisione, l’ordine delle basi in un frammento di DNA. Gli scopi per cui si applica tale tecnica sono molteplici: identificare mutazioni che causano patologie, paragonare i geni tra cellule in cui sono espressi e cellule in cui non sono espressi o sono espressi in parte, ricercare sequenze di regolazione, determinare la sequenza di una proteina corrispondente a una regione codificante, riconoscere i geni di un genoma.
La tecnica del sequenziamento si compone di diverse fasi:
1. preparazione del DNA stampo, sequenziamento con marcatura che consente di ottenere una serie di frammenti marcati con un’estremità fissa e una variabile;
2. separazione usando elettroforesi su gel o elettroforesi capillare ad alta risoluzione;
3. rilevazione di frammenti di DNA;
4. lettura della sequenza usando l’autoradiografia (marcatura radioattiva) o la reazione con i fluorocromi (marcatura a fluorescenza).
I metodi che si possono utilizzare per sequenziare il DNA sono descritti di seguito.
1. Metodo chimico di Maxam e Gilbert attraverso cui il DNA è tagliato chimicamente in corrispondenza di basi specifiche e i prodotti di taglio sono analizzati su gel elettroforesi. Si preparano 4 miscele di reazione diverse (una per ogni base); in ogni miscela si producono frammenti di lunghezza diversa che vengono separati su gel di poliacrilammide. Il passaggio successivo è l’autoradiografia del gel.
2. Metodo enzimatico di Sanger, detto anche dei terminatori di sintesi enzimatica o dei dideossi, in cui il DNA da sequenziare è replicato a partire da un primer radiomarcato.
Il filamento neosintetizzato si spezza per la presenza di dideossi-nucleotidi che, mancando il gruppo OH al 3’, non consentono il formarsi del legame fosfodiesterico con il nucleotide successivo e analizzato con l’autoradiografia.
3. Sequenziamento automatico del DNA in fluorescenzaÈ un sistema di lettura automatico che prevede l’utilizzo di nucleotidi trattati (fluorocromi).
I prodotti di sintesi vengono fatti correre sulla stessa corsia di un gel denaturante, un laser eccita i fluorocromi, ciascuno dei quali emette una luce d’onda caratteristica e tramite un sistema automatizzato viene riportata su un personal computer la corretta sequenza nucleotidica del frammento analizzato.

     Ibridazione di acidi nucleici
Le tecniche di ibridazione permettono non solo di identificare e quantificare sequenze specifiche di DNA e di RNA, ma di studiarne l’organizzazione, la localizzazione intra-cellulare e l’espressione. Per determinare la presenza e la quantità di acidi nucleici si usa una sequenza specifica detta sonda molecolare, o probe, corrispondente al DNA bersaglio nel campione biologico analizzato.
Le sonde possono essere corte (20-30 oligonucleotidi) o lunghe (2-3 kb).
Le tecniche di ibridazione consistono nell’appaiamento di molecole a singolo filamento provenienti da due fonti diverse (il DNA bersaglio e la sonda) e permettono di identificare all’interno di un gel i frammenti di DNA che sono complementari a una determinata sequenza [  34  ].
Innanzitutto il DNA deve subire un processo chiamato denaturazione che consiste nella separazione della molecola di DNA in due filamenti singoli. Questo processo si verifica quando una soluzione acquosa di DNA è riscaldata a 100 °C o esposta a un pH molto alto (>13) o sono presenti sostanze come urea o formamide che rompono i ponti a idrogeno che normalmente tengono insieme i due filamenti della doppia elica.
Poiché la denaturazione è un processo reversibile, se dopo la separazione delle eliche si fa scendere gradualmente la temperatura a 65 °C o si varia il pH, i singoli filamenti si possono riappaiare e la doppia elica può riformarsi.
Il processo è chiamato rinaturazione del DNA.
Allo stesso modo si possono avere reazioni anche fra due catene di DNA a singolo filamento di diversa origine, purché abbiano sequenze nucleotidiche complementari e si possano formare delle doppie eliche di DNA-RNA o RNA-RNA.
Questo processo prende il nome di ibridazione e il risultato è definito ibrido molecolare. La condizione fondamentale perché ciò avvenga è che in soluzione si mettano molecole di DNA a singolo filamento antiparallele con sequenza complementare, cioè delle sonde. L’ibridazione è una forma di riconoscimento molecolare estremamente specifica e la sonda è in grado di trovare fra moltissime sequenze proprio, e solo, quella complementare.
Le sonde, inoltre, devono essere rilevabili e a tal fine vengono marcate con sostanze fluorescenti o con isotopi radioattivi come zolfo 35 (35S) e fosforo 32 (32P) che sono i più usati in biologia molecolare.
I segnali emessi dai radioisotopi si rilevano attraverso:
1. la tecnica dell’autoradiografia, che sfrutta la capacità degli isotopi radioattivi di impressionare le lastre fotografiche;
2. il contatore geiger, che misura gli ioni prodotti in un gas da particelle β o da raggi γ emessi da un radioisotopo;
3. il contatore a scintillazione, entro il quale un campione radiomarcato è mescolato con un liquido che contiene un liquido fluorescente capace di emettere luce quando assorbe l’energia delle particelle β o dei raggi γ durante il decadimento radioattivo.

34 Visualizzazione di eteroduplex sonda-bersaglio in un saggio di ibridazione di acidi nucleici. Un campione di interesse (consistente in una miscela complessa di acidi nucleici) e una popolazione predefinita di sonde (costituite da sequenze note di acido nucleico, o oligonucleotidiche allo stato di singolo filamento), vengono miscelati e lasciati appaiare. Le sequenze che in precedenza erano appaiate nel campione di interesse e nella sonda si riappaieranno tra loro per formare omoduplex (in basso a sinistra e a destra). Tuttavia, si formeranno anche nuove molecole di eteroduplex tra la sonda e le sequenze bersaglio che possiedono sequenze totalmente o parzialmente complementari a essa (in basso al centro). Le condizioni di ibridazione possono essere modificate per facilitare la formazione di eteroduplex. In questo modo, le sonde riconoscono e identificano selettivamente acidi nucleici correlati presenti in una popolazione complessa.
Esistono anche metodi di marcatura non radioattiva, quali la biotina e la digossigenina, che danno substrati stabili più a lungo e più sicuri per l’operatore.
Si conoscono vari tipi di sonde.
1. Sonde cromosoma-specifiche. Si tratta di una sonda costituita da un insieme di sonde di DNA, ognuna delle quali è omologa all’intero cromosoma considerato.
L’ibridazione con una sonda cromosoma-specifica viene marcata con un fluorocromo per visualizzare segnali fluorescenti su una determinata coppia di cromosomi omologhi lungo tutto il cromosoma.
2. Sonde centromero-specifiche. Questa sonda è costituita da un tipo di sequenze ripetute, dette alfoidi, presenti nei centromeri. La sua ibridazione marcata con un fluorocromo permette di visualizzare segnali fluorescenti a livello dei centromeri di una coppia di cromosomi omologhi.
3. Sonde telomero-specifiche. Sono costituite da sequenze localizzate nella parte terminale dei cromosomi e sono sequenze specifiche per il telomero di ogni cromosoma.
L’ibridazione con una sonda telomerica specifica, marcata con un fluorocromo, consente di visualizzare segnali fluorescenti a livello dei telomeri di uno dei due bracci di una coppia di cromosomi omologhi.
4. Sonde locus-specifiche. La sonda locus-specifica è costituita dalla sequenza di una regione delimitata lungo uno specifico cromosoma e la sua ibridazione, con tale sonda marcata con un fluorocromo, permette di visualizzare segnali fluorescenti a livello di una regione sul braccio corto o sul braccio lungo di una coppia di cromosomi omologhi [  35  ].
Le sonde di DNA marcate possono essere utilizzate per monitorare su fase solida (membrane di nitrocellulosa, nylon) la presenza in una popolazione eterogenea di uno specifico frammento di DNA (Southern blotting) o di RNA (Northern blotting) o le proteine (Western blotting).
I frammenti degli acidi nucleici sono trasferiti su gel di agarosio o di poliacrilamide dopo essere stati precedentemente separati tramite elettroforesi.
Il Southern blotting è sfruttato principalmente per analizzare nel dettaglio la struttura di un gene, a partire cioè da pochissime molecole di un campione di DNA genomico.
Il Northern blotting è utilizzato per lo studio dell’espressione genica, cioè per capire quali geni vengono trascritti: l’RNA viene estratto e purificato da cellule o tessuti e poi analizzato per determinare la presenza o assenza di una certa sequenza.
Il Western blotting è una tecnica mediante la quale una molecola, all’interno di una miscela di proteine separate elettroforeticamente, è successivamente riconosciuta in genere tramite metodi immunologici.

     Genomica
La possibilità di sequenziare interi genomi ha aperto la strada alla genomica che è l’insieme di discipline che studiano nel complesso tutti i geni di un organismo. Essa si distingue in genomica comparata e genomica funzionale.
La genomica comparata paragona i genomi di organismi diversi per stabilirne le relazioni evolutive o per capire quali sono i geni conservati e quindi importanti per la vita. Ad esempio il genoma umano paragonato a quello di altri organismi è risultato per circa il 40% di origine virale: si tratta di sequenze di DNA derivate da virus o retrovirus, che nel corso dell’evoluzione (anche parecchi milioni di anni fa), sono entrate nella linea germinale umana e vi sono rimaste.
Alcune di queste informazioni sono molto importanti, ad esempio la placenta ha come componente fondamentale una proteina che si chiama sincitina che è una proteina di un retrovirus.
Questo tratto genico è entrato 50 milioni di anni fa nella linea evolutiva che poi avrebbe dato origine ai placentati.
Allo stesso modo i mitocondri, che erano dei batteri inglobati nella cellula, hanno ancora un po’ di DNA di origine batterica (DNA mitocondriale). La genomica comparata rivela che il trasferimento di geni da una specie all’altra non è un evento raro né artificiale, ma è il modo in cui l’evoluzione va avanti perché tutte le specie viventi sono fatte da composizione di materiale genetico di origine molto diversa.
La genomica funzionale ricerca in modo sistematico la funzione di ogni gene.
Per poter comprendere i processi fisiologici delle cellule ed in che modo insorgono malattie, viene analizzato l’RNA 
e le proteine prodotti in un certo momento e in un preciso tessuto. Infatti, tutte le cellule hanno lo stesso materiale genetico, ma lo usano in maniera differenziale (un neurone e una cellula muscolare utilizzano batterie di geni diverse).
Una tecnica prevede l’utilizzo di chip, chiamati microarrayche sono delle lastrine (di 1,5 cm di lato) su cui vengono posizionate in maniera ordinata e nota, ad esempio, tutti i 20.000 geni umani sotto forma di corti oligonucleotidi [  36  ].
1. Vengono estratti da una popolazione cellulare gli mRna che identificano quali geni sono espressi.
2. Vengono convertiti in DNA utilizzando la trascrittasi inversa.
3. Il DNA viene denaturato, rendendolo a singola elica.
4. Viene poi marcato con dei gruppi fluorescenti. In presenza di queste micropiastre, laddove l’mRNA troverà la sequenza complementare, si legherà e darà un segnale fluorescente.
Usando due colori diversi, si possono confrontare due popolazioni diverse e vedere la differenza di espressione.
In questo modo si può confrontare una cellula normale e una cellula tumorale e vedere quali sono i geni importanti per lo sviluppo tumorale.
Oggi le terapie con anticorpi monoclonali vengono utilizzate per curare alcune forme di tumori. Gli anticorpi monoclonali sono diretti contro un solo specifico antigene e sono capaci di individuarlo, legarlo e neutralizzarlo.
Spesso l’antigene utilizzato per l’immunizzazione è una proteina espressa da DNA ricombinante. La decodificazione dell’espressione genica oggi viene utilizzata per guidare la terapia e si chiama medicina personalizzata.
Un altro esempio di genomica funzionale è l’inattivazione dei geni. Questo permette di capire, a livello di un organismo, cosa fa un gene e cosa viene a mancare fenotipicamente se viene disattivato. Per fare questo occorre generare un organismo privo di quel gene: sono i “famosi” topolini knock-out. Utilizzando un vettore che porta una versione difettiva del gene d’interesse, si inserisce questo vettore nelle cellule dell’embrione e un meccanismo naturale, che è la ricombinazione omologa, scambierà il gene immesso con quello endogeno e si svilupperà un embrione di topolino mancante di quel gene.
I topi knock-out oggi sono un modello per molti tumori e per numerose vie metaboliche.

NUOVE Biotecnologie Agrarie e Biologia Applicata
NUOVE Biotecnologie Agrarie e Biologia Applicata