2  Il miglioramento genetico

Il miglioramento genetico è il processo di modifica del patrimonio genetico al fine di migliorare le caratteristiche utili all’uomo nelle specie coltivate o allevate.
Il miglioramento genetico degli animali zootecnici è la tecnica che consente l’aumento delle prestazioni produttive e riproduttive degli allevamenti attraverso la valutazione e la conseguente scelta (selezione) dei riproduttori. Per questo aspetto generale, il miglioramento genetico è di solito considerato alla stregua di una attività di pubblico interesse e la sua gestione, soprattutto nella parte relativa alla valutazione dei riproduttori, è di solito controllata dallo Stato (MIPAF).
Il miglioramento genetico delle piante è un processo evolutivo condizionato dall’uomo e attuato attraverso tecniche che tendono a creare varietà rispondenti alle esigenze quantitative e qualitative della produzione. Esso consiste in due tipi di attività complementari: permette la creazione di nuove cultivar (selezione miglioratrice  3  ]), convalida la produzione continua di piante di qualità genetica certificata (selezione conservatrice).
Il miglioramento genetico è realizzabile solo se le specie presentano una potenziale variabilità genetica, che deve essere sfruttata per la selezione di individui particolari in popolazioni eterogenee e, nello stesso tempo, deve essere preservata per non impoverire il pool genetico.

     Selezione
Probabilmente, a partire dai primi tentativi di addomesticazione avvenuti 12.000-14.000 anni fa, il miglioramento genetico animale si è basato sulla selezione degli individui fenotipicamente migliori e per questo adatti ad essere i progenitori delle future generazioni. Fin dalle origini dell’allevamento, l’uomo ha infatti progressivamente modificato e accentuato le caratteristiche e le capacità del bestiame in modo da poter ottenere una maggiore quantità di prodotti utili per il suo sostentamento. Il miglioramento genetico coinvolge una parte, e a volte, l’intero patrimonio di una razza come nel caso della Frisona Italiana, la più importante razza bovina diffusa in tutta Italia.
Il miglioramento genetico degli animali di interesse zootecnico è basato sulla selezione dei riproduttori 4  ].
Essa si occupa quasi esclusivamente di caratteri di interesse economico (produzione di latte, contenuto lipidico del latte, ritmo di accrescimento nei giovani, indice di conversione alimentare, numero di uova deposte, spessore del lardo dorsale nei suini, ecc.) che sono espressi in unità di misura (cioè in kg, cm, numero) e sono comunemente indicati come caratteri quantitativi. Il loro studio all’interno di una popolazione animale si basa sia sulla misurazione dei valori fenotipici sia sulla stima della parte della variabilità osservata di origine genetica e che quindi può essere trasmessa alla generazione successiva. Infatti, tali caratteri sono determinati geneticamente da un gran numero di loci poliallelici, ciascuno dei quali contribuisce per una piccola parte alla espressione genetica del carattere. I caratteri quantitativi, detti anche continui, mostrano una vasta gamma di fenotipi e una relazione genotipo-fenotipo complessa e si differenziano dai caratteri qualitativi o discontinui (colore del mantello nei bovini, varianti delle proteine del latte, presenza/assenza di corna nei bovini, resistenza alla scrapie negli ovini, ecc.) che esibiscono un numero ridotto di fenotipi e mostrano una relazione genotipo-fenotipo semplice.
Gli obiettivi della selezione devono essere limitati e il più precisi possibile (es. per la produzione del latte, la quantità prodotta per lattazione, il contenuto lipidico, il contenuto proteico; per la produzione della carne, i ritmi di accrescimento, gli indici di conversione alimentare, la qualità della carne, le dimensioni, lo spessore e il colore del guscio dell’uovo nei polli).
La scelta degli animali da destinare alla riproduzione e lo scarto degli animali non desiderati implicano una scelta e un’eliminazione di quei geni e di quei genotipi, il cui fenotipo coincide con caratteri che l’allevatore intende esaltare e diffondere, o con caratteri negativi che vuole eliminare.
Il valore genetico (valore riproduttivo VR o breeding value BV) dei riproduttori è classificato in una scala di merito attraverso il calcolo dei cosiddetti indici genetici (IG), con metodi statistici a volte molto complessi e con schemi di selezione che variano in funzione delle informazioni fenotipiche utilizzate.
Nei vegetali, attraverso la tecnica della selezione, si cerca di migliorare l’intensità di un carattere che interessa.
La selezione viene usata per ottenere nuove varietà, ma non per produrre in esse nuove caratteristiche, poiché agisce solo nei limiti dei genotipi esistenti.
Sotto l’aspetto tecnico, la selezione che si applica alle specie dipende dalla modalità con cui queste si riproducono ed è perciò importante distinguere tra piante autogame, allogame e a propagazione vegetativa.
Nelle piante autogame 5  ], la naturale autofecondazione dà luogo a una elevata omozigosi accompagnata da omogeneità e stabilità degli individui, cosicché è possibile ottenere specie adatte alla meccanizzazione e standardizzazione richieste dalla moderna agricoltura.
Nelle specie allogame 6  a pagina seguente], la naturale e continua possibilità di incroci genera eterogeneità, poca stabilità e fa sì che le specie siano adattate ad un unico ambiente (ecotipi). Con il miglioramento genetico si vogliono creare delle popolazioni omogenee a partire da queste popolazioni e, quindi, adatte a condizioni ambientali diverse.
Le piante a propagazione vegetativa 7  a pagina seguente], sono in realtà cloni di uno stesso individuo e hanno, perciò, lo stesso genotipo dell’individuo iniziale; tuttavia con il passare del tempo possono accumulare mutazioni che, individuate e isolate, vengono selezionate per la riproduzione.

     Inincrocio
Dopo la selezione è possibile incrociare due individui (incrocio interno o inincrocio) strettamente affini per selezionare (ottenere) nuove varietà vegetali, o nuove razze zootecniche uniformi che presentino in maniera stabile il carattere desiderato.
La selezione è però un’arma a doppio taglio: da una parte si ottengono varietà standardizzate che presentano i caratteri desiderati, dall’altra si può arrivare a quella che viene definita depressione da inincrocio.
Anche negli animali lo stretto inincrocio può ridurre il tasso riproduttivo e provocare la comparsa di caratteri letali o comunque dannosi.
Gli eucarioti, in quanto diploidi, possono essere portatori sani di molte malattie genetiche, delle quali non manifestano alcun sintomo grazie all’eterozigosi prevalente dei propri geni.
Nella quasi totalità dei casi, infatti, i geni dannosi sono recessivi e il loro mal funzionamento viene mascherato dal gene normale, che assolve pienamente le funzioni biologiche.
Nella pianta con omozigosi (ottenuta dall’incrocio di individui molto simili o da autofecondazione), è facile il rischio che in entrambi i loci genetici sia presente lo stesso allele difettoso che funziona meno bene o che non funziona affatto. Il rendimento fisiologico dell’omozigote in questo caso è inferiore.
Questo problema si verifica soprattutto in quei vegetali (allogami) che presentano in prevalenza riproduzione incrociata: sottoposti a cicli di autofecondazione manifestano, dopo alcune generazioni, un decremento progressivo di produttività.
Per ovviare a questo inconveniente bisogna agire in maniera contraria a quella seguita dalla omozigosi e produrre degli ibridi mediante un incrocio esterno o esoincrocio.
     Ibridazione
Ripristinando con l’esoincrocio l’eterozigosi, si ottiene la sostituzione dei geni alterati con geni necessariamente diversi e così gli ibridi ottenuti avranno crescita, dimensioni, capacità riproduttiva diverse rispetto alle varietà da cui derivano.
Questo fenomeno viene detto lussureggiamento degli ibridi o eterosi 8a  ]. L’eterosi, osservata fin dal 1776 da Koelreuter, fu compresa solo agli inizi del Novecento in seguito alla scoperta delle leggi di Mendel.
Immaginiamo che un individuo presenti un genotipo AAbbCCddee e un altro aaBBccDDEE: l’ibrido che si ottiene è AaBbCcDdEe. L’eterosi è forse la più grande applicazione della genetica in agricoltura. Il mais è la specie vegetale che ha tratto maggior vantaggio dalla realizzazione di varietà ibride con un vistoso aumento della produzione negli ultimi 50 anni. Gli ibridi vengono distinti in ibridi a due vie e ibridi a quattro vie  8b, c  ].
Gli ibridi a due vie si ottengono incrociando tra loro due linee pure: il prodotto ottenuto è molto produttivo e, pur trattandosi di soggetti eterozigoti, è altamente omogeneo (ibridi F1, prima legge di Mendel).
Il limite all’utilizzo è l’elevato costo del seme, che viene seminato perciò solo nelle zone più adatte e a coltura intensiva.
Gli ibridi a quattro vie derivano dall’incrocio tra due ibridi F1: le piante sono meno omogenee e meno produttive, ma costano meno e sono perciò più indicate per essere utilizzate in zone meno vocate alla coltura. Il seme ottenuto non è una linea pura e gli agricoltori devono acquistare, ogni anno, nuovo seme dalle ditte sementiere.
Esistono anche ibridi a tre vie, risultato dell’unione di un ibrido F1 con una linea pura: le caratteristiche sono intermedie rispetto ai precedenti.
In campo zootecnico l’incrocio tra animali non parenti dà origine spesso a un aumento del vigore e dello sviluppo dei discendenti. Il vigore ibrido appare come espressione di caratteri superiore rispetto a quelli posseduti dai ceppi di entrambi i genitori e si manifesta con crescita più rapida, taglia maggiore, migliore produttività, vitalità superiore e in altri modi ancora.
Oltre al vigore degli ibridi riscontrato nelle specie rispetto ai genitori e alle specie non ibride, l’ibridazione ha un’importanza determinante nella ricombinazione dei geni e viene utilizzata anche per incrociare fra loro organismi appartenenti a specie o a generi differenti (ibridazione interspecifica).

     IBRIDAZIONE INTERSPECIFICA
La maggior parte delle tecniche di miglioramento genetico ha oggi come finalità l’aumento del raccolto e la resistenza alle malattie. Spesso la resistenza è un carattere che può trovarsi nella specie selvatica affine a quella domesticata: si fanno, quindi, incroci fra le due piante per indurre il carattere di resistenza nella specie coltivata. Sono necessari incroci ripetuti affinché la specie coltivata mantenga i caratteri desiderati e acquisisca anche i geni della resistenza.
Quando una grave malattia, l’Hemiltosporium, colpì il mais distruggendo più della metà dei raccolti, si riuscì ad arginare gli effetti catastrofici a livello mondiale perché furono reperiti germoplasmi resistenti alla malattia presenti in ecotipi dei Paesi del Terzo Mondo.
Fra gli animali, gli ibridi interspecifici più conosciuti sono il mulo che deriva dall’incrocio fra una cavalla e un asino e il bardotto prodotto dall’incrocio fra un’asina e un cavallo.
Tali ibridi hanno la mole del cavallo e la resistenza dell’asino.
Poiché cavallo e asino appartengono a due specie diverse, mulo e bardotto [  9  ] sono sterili, come molte piante che vengono artificialmente costruite dall’incrocio fra specie o generi diversi e non sono in grado di produrre polline o semi funzionanti.
Ciò è spesso dovuto al numero differente di cromosomi nelle specie dei due genitori.
Gli ibridi delle nuove generazioni hanno serie spaiate di cromosomi, che durante la meiosi non possono dare origine a cromosomi omologhi. In natura si è constatato che, fra le piante, alcuni ibridi sono riusciti a perpetuarsi aggirando l’ostacolo o mediante apomissia o attraverso la poliploidia, dando origine a un organismo fertile.
Il frumento ne costituisce un esempio ripetutosi nei millenni. Le specie attualmente coltivate sono due: grano duro, Triticum durum, con 28 cromosomi e T. aestivum con 42, ma alla loro origine hanno partecipato tre specie selvatiche diploidi con numero cromosomico 2n = 14 (n = 7). Il grano tenero risulta da una moltiplicazione per 6 del numero cromosomico di base ed è perciò un esaploide, il duro da una moltiplicazione per 4 del numero cromosomico 7 ed è perciò tetraploide. Sembra dimostrato che il T. monococcum si sia ibridato con Aegilops speltoides, specie affine al frumento, dando origine ai tetraploidi; questi ultimi avrebbero subìto, poi, una ulteriore ibridazione con Aegilops squarrosa, permettendo la creazione di frumenti esaploidi. Tali ibridi sono naturali, ma se ne conoscono anche di artificiali, realizzati dall’uomo. Una pianta nuova, costruita dall’uomo, è l’ibrido intergenerico fra il frumento e la segale chiamato triticale 10  ], utilizzato in zone collinari-montane per le sue qualità di produzione e resistenza.

     Mutagenesi
La mutagenesi è una tecnica utilizzata per modificare geneticamente le piante, sfruttando la variabilità naturale (mutagenesi naturale) o producendo forme mutate di un certo gene (mutagenesi indotta). Nel primo caso, le mutazioni si verificano con frequenze molto basse e in genere sono sfavorevoli, perché comportano una perdita di funzione. Se la mutazione è svantaggiosa dominante, è destinata a scomparire, mentre se è recessiva rimane latente, mascherata a livello fenotipico dall’allele dominante, ma con la possibilità di permanere e affermarsi nelle successive generazioni; se la mutazione è vantaggiosa e dominante, aumenta la sua frequenza all’interno della popolazione di quella specie.
Il processo di mutagenesi indotta richiede trattamenti con sostanze chimiche mutagene (etilmetano, dietilsulfanato, metlimatano sulfanato, colchicina) o con forti dosi di radiazioni (raggi X, raggi γ, neutroni da radiatore nucleare, particelle β da isotopi radiattivi), per ottenere mutazioni con una frequenza più alta rispetto a quelle spontanee.
Tale tecnica ebbe inizio nei primi decenni del Novecento, quando lo scienziato Hermann Muller (che per questo nel 1946 fu insignito del premio Nobel) scoprì l’azione mutagena dei raggi X che fu utilizzata a lungo negli anni successivi alla seconda guerra mondiale quando gli sforzi si concentrarono per trovare un uso “pacifico” dell’energia atomica. Dall’uso dei mutageni artificiali sono derivate molte varietà di cereali oggi coltivate, fra le quali nel 1974 comparve la varietà di frumento Creso, ottenuta con l’impiego di raggi γ, che nel giro di dieci anni si diffuse in tutta la Penisola, soppiantando le varietà esistenti. L’induzione di mutazioni con diverse tipologie di agenti mutageni è utilizzata nel mondo per diverse colture erbacee e arboree, e in Italia si conoscono varietà ottenute con mutazioni indotte non solo del frumento, ma anche di pisello, melanzane, olivo, patata e riso. Nel 1973 la varietà di riso Fulgente fu ottenuta trattando il Maratelli con raggi X, mentre l’esempio più importante di mutazione utile fu l’identificazione di una singola mutazione nucleotidica ottenuta con radiazioni γ il cui effetto fu una variazione della produzione dell’ormone di crescita gibberellina, in grado di determinare una riduzione della taglia della pianta.
Questa caratteristica fu utilizzata per l’esecuzione di programmi di selezione che hanno determinato lo sviluppo di numerose cultivar di riso, oltre che in Italia, anche in Asia, USA, Australia, Egitto, Sud-America. Anche attraverso
la mutagenesi chimica si sono ottenuti ottimi risultati, in quanto essa induce principalmente mutazioni geniche a differenza dei mutageni fisici che causano anche aberrazioni cromosomiche spesso deleterie. In particolare, la colchicina è in grado di causare raddoppiamento del numero cromosomico cellulare bloccando la formazione del fuso mitotico, impedendo quindi la disgiunzione dei cromatidi e dando luogo a individui poliploidi. Indurre artificialmente la poliploidia nelle cellule vegetali ha lo scopo di ottenere piante di maggiore pregio, capaci di una produzione più numerosa, più pregiata e apprezzata commercialmente, nonché più resistente a condizioni ambientali critiche. Tra le piante poliploidi più conosciute sono comprese la patata, il frumento, il tabacco, le fragole, le more, i lamponi, ecc. e varietà di piante ornamentali a fiori grandi, come giacinti, tulipani e narcisi. L’obiettivo della mutagenesi è dare origine non solo a piante più produttive, resistenti a malattie, al freddo o alla siccità, ma anche dotate delle caratteristiche organolettiche più richieste dal mercato [  11  ], come l’aromaticità dell’uva (determinata nella vite dal gene DXS) e la colorazione della bacca di pomodoro che può andare dal giallo al viola, al verde al nero, di cui sono responsabili mutazioni in geni singoli, quali yellow flesh (giallo), dark green (rosso intenso), green flesh (viola), u (uniformemente verde).
Per indurre mutagenesi vengono trattate le piante intere, ma anche alcune parti come polline, seme, marze o talee, provviste di gemme contenenti gli apici meristematici, in grado di dividersi attivamente originando i vari organi della pianta. Nonostante il successo di numerose cultivar nel mondo, bisogna tuttavia sottolineare il fatto che la mutagenesi non è affatto un processo immediato e di facile soluzione. Poiché le mutazioni sono, per la maggior parte dei casi, dannose, le piante, come tutti gli organismi viventi, hanno sviluppato dei meccanismi che intervengono nella riparazione del DNA, riducendo notevolmente il tasso di mutazione e ripristinando la struttura della doppia elica di DNA. A volte, però, la sequenza di basi che compongono l’elica non corrisponde a quella originale, precedente al danno e alla riparazione; si hanno quindi mutazioni che in genere causano malfunzionamenti dei geni colpiti, ma che possono anche tradursi in tratti agronomici interessanti.
Saranno le piante portanti tali tratti a essere selezionate e propagate per accertare la stabilità della mutazione. Tuttavia, poiché il processo è casuale e non in grado di colpire un particolare gene in modo specifico ma tutto il genoma, prima che si possa isolare almeno una pianta dotata di tali caratteristiche, devono essere trattate migliaia di piante.
I lunghi tempi necessari per le fasi ripetute di incrocio e selezione prima di arrivare al rilascio di una cultivar sono, perciò, uno dei fattori limitanti del miglioramento genetico.
     Tempi di sperimentazione e speed breeding
Il miglioramento genetico tradizionale, di cui fanno parte l’incrocio e la mutagenesi, è una componente insostituibile dell’agricoltura moderna, in quanto ha lo scopo di sviluppare nuove varietà in grado di far fronte a richieste e sfide che agricoltura, ambiente e società impongono. In particolare, mira a costituire varietà superiori dal punto di vista nutrizionale e della salubrità delle produzioni, con ricadute dirette sulla salute umana e sulla sostenibilità ambientale. Tale tecnica opera una scelta tra le piante individuando quelle più adatte agli scopi prefissi, sfruttando la diversità degli individui presenti in una popolazione; essa è stata utilizzata fin dai primordi dell’agricoltura e continua ad esserlo ancora oggi in tutto il mondo, ovviamente opportunamente rafforzata con le tecnologie più recenti. Si tratta però di una tecnica piuttosto lunga e laboriosa che necessita di diversi passaggi per creare una nuova varietà con particolari qualità.
Dalle leggi di segregazione previste da Mendel sappiamo infatti che per far emergere fenotipicamente un carattere puro (tutte le coppie alleliche di ciascun gene uguali), occorrono centinaia di migliaia di incroci ed è ciò che da sempre agricoltori e allevatori fanno, per selezionare le caratteristiche ricercate. Il miglioramento genetico ha inizio con la scelta del carattere di interesse, basata sia sull’osservazione delle piante in campo, allo scopo di evidenziare gli aspetti morfologici legati alla caratteristica, sia sull’analisi dei prodotti, volta a verificare la presenza di composti di interesse.
Dopo aver identificato la varietà che porta il gene (o i geni), la pianta deve essere testata e poi incrociata con le cultivar d’interesse commerciale. Si seleziona progressivamente la prole in modo tale che possa possedere sia le caratteristiche desiderate sia gli standard richiesti dal mercato, affinandone le qualità generazione dopo generazione.
Una volta ottenute le nuove cultivar, è necessario eseguire test sul campo per valutarne le caratteristiche in condizioni reali e solo dopo questa fase è possibile immettere in commercio la nuova cultivar.
Questo modo di procedere richiede tempi lunghissimi e non sempre porta a risultati soddisfacenti perché è probabilistico e non si sa mai quale gene possa essere trasmesso insieme a quello di interesse.
Negli ultimi anni nel mondo si fa sempre più urgente la necessità di trovare le giuste strategie per incrementare la produzione alimentare e sfamare la popolazione che sta aumentando ed è alle prese con cambiamenti climatici che procurano disastri ambientali con la distruzione di terreni o di raccolti.
Per far fronte a queste emergenze è nato il cosiddetto speed breeding. Si tratta di una tecnica sperimentata dalla NASA per far crescere velocemente le piante nello spazio e messa a punto a fini agronomici da un team di scienziati australiani del John Innes Center, dell’Università del Queensland e dell’Università di Sydney. La tecnica si basa sul presupposto di un’illuminazione artificiale intensa e prolungata in condizioni di crescita controllata (temperatura e umidità) per ottenere cicli di produttività più rapidi e intensi.
Le piante vengono coltivate in particolari serre o camere
di coltivazione, con luci a LED di forte intensità, ottimizzate per massimizzare la fotosintesi in regimi intensivi, fino a 22-24 ore al giorno [  13  ], con un consumo minore rispetto all’illuminazione alogena usata a lungo in serra in precedenza, che generava molto calore ma minore potere luminoso. Grazie a questo processo, la crescita dei vegetali è velocizzata al punto che i ricercatori sono riusciti a ottenere 6 raccolti all’anno di diverse varietà di colture quali orzo, grano duro, frumento tenero, piselli e ceci in un lasso di tempo di sole otto settimane. Lo sviluppo, seppur accelerato, e le caratteristiche fenotipiche dei vegetali, come pure il numero dei semi e le loro percentuali di germinazione, rimangono sostanzialmente uguali a quelle delle piante ottenute attraverso il sistema tradizionale in serra. La tecnica dello speed breeding è stata utilizzata con successo anche su frumento per ottenere una cultivar resistente al germogliamento pre-raccolta (Phs), problematica importante per l’agricoltura in Australia, dove le piogge frequenti durante il periodo della raccolta compromettono spesso le produzioni. Reintroducendo il gene della dormienza del seme e accelerando i cicli di sviluppo, si è riusciti a ottenere una nuova varietà resistente che, nel giro di pochi anni, è già disponibile sul mercato.
In seguito a questi successi, altri scienziati si stanno occupando di rendere questa metodologia più accessibile e meno costosa, creando le condizioni migliori per sviluppare le tecniche di crescita rapida in normali serre botaniche o in camere di crescita “autocostruite”.

     Ecotipi e clini
In natura le specie sono adatte all’ambiente in cui vivono perché i processi selettivi eliminano gli individui meno favorevoli, premiando quelli con caratteri vantaggiosi.
Anche nelle specie coltivate si verificano adattamenti all’ambiente. Quando una specie coltivata risulta adatta all’ambiente in cui vive ed è in equilibrio col proprio habitatsi parla di ecotipo o razza climatica. I fattori naturali capaci di determinare l’insorgenza di diversi ecotipi sono gli stessi che in natura determinano il processo di speciazione come catene montuose, grandi fiumi, mari.
Una specie che occupa molti habitat differenti può, infatti, apparire leggermente diversa in ognuno di questi e presentarsi con fenotipi differenti pur essendo geneticamente omogenea. L’ecotipo è una popolazione che si sviluppa in un contesto territoriale circoscritto (comprensorio, regione) ed è l’espressione dell’interazione fra il germoplasma di una specie con le specifiche condizioni ambientali di una regione. L’identità degli ecotipi è perciò associata al territorio. A volte, una stessa specie molto diffusa segue una variazione che cambia a seconda della distribuzione geografica e in particolare delle condizioni climatiche. In questo caso i caratteri della popolazione variano in modo graduale e lento senza discontinuità, secondo un gradiente climatico-ambientale. Si parla di variazione clinalele popolazioni con queste caratteristiche sono dette clini.
Sia un cline che un ecotipo si presentano con moltissime frequenze geniche ed entrambi sono un miscuglio di individui adattati a specifiche condizioni, ma anche capaci di riadattarsi in tempi brevi a condizioni nuove. Un esempio ormai storico è rappresentato da una varietà di erba medica che nel 1850 fu importata nel Minesota da un emigrato tedesco di nome Grimm (da cui deriva il nome della varietà).
Egli, partendo da piante adattate al clima temperato della Germania meridionale, ottenne dalle risemine realizzando anno dopo anno una popolazione di foraggera particolarmente adatta a vivere nel clima continentale del Minesota (caratterizzato da inverni lunghi e molto rigidi) e capace di sopportare risvegli primaverili tardivi, precoce dormienza autunnale e ciclo estivo rapido. Nel giro di alcuni anni questa varietà venne commercializzata e diffusa in tutti gli Stati Uniti. Essendo il territorio molto vasto, nelle zone separate da barriere naturali e nei territori ristretti si originarono gli ecotipi, mentre nelle aree più ampie in cui il clima variava secondo gradiente, comparvero i clini.
Successivamente la stessa varietà fu seminata nell’isola di Cipro dove le condizioni climatico-ambientali erano molto diverse da quelle di partenza e in pochi anni comparve un nuovo ecotipo capace di un precoce risveglio primaverile e di un tardivo riposo autunnale e resistente alla siccità estiva del clima mediterraneo.
Il processo che nel giro di poche generazioni porta al raggiungimento di un equilibrio genetico con l’ambiente è detto ecotipizzazione.
Poiché la moderna agricoltura necessita di individui tra loro molto simili o addirittura identici, come i cloni, favorevoli alla standardizzazione delle diverse operazioni colturali, gli ecotipi non vengono molto utilizzati. Gli individui, infatti, non sono affatto omogenei, ma presentano statura diversa, frutti e semi di svariate dimensioni, scalarità di maturazione. Rimangono presenti per colture a basso reddito, come quelle foraggere, o in molte aree del Terzo Mondo in cui l’agricoltura non ha raggiunto un certo grado di intensivazione. Nei Paesi ad agricoltura avanzata, gli ecotipi vengono impiegati per la conservazione del germoplasma e la tutela della biodiversità genetica e hanno un ruolo non solo storico-agronomico, poiché per millenni hanno caratterizzato l’agricoltura e sono stati la base per ottenere le varietà moderne, ma anche economico-sociale per la valorizzazione dei prodotti tipici regionali.

TIPOLOGIE DI SELEZIONE GENETICA NELLE PIANTE
Piante annuali
autogame
Grano, orzo,
pomodoro, soia
Selezione per linea pura,
selezione massale, incrocio
Piante annuali
allogame
Barbabietola da
zucchero, mais,
cipolla, segale
Selezione massale, varietà
sintetiche, selezione ricorrente,
reincrocio, varietà ibride
Piante perenni allogame
propagate per
seme
Erba medica e
alcune piante
tropicali
Stesso metodo delle annuali
allogame
Piante perenni
propagate
vegetativamente
Patata, canna da
zucchero e piante
da frutto
Incrocio fra cloni eterozigoti,
selezione clonale della progenie
14 Piani di produzione per la selezione genetica.

Inoltre in un’ottica di agricoltura sostenibile gli ecotipi possono essere ritenuti colture a risparmio energeticopoiché sono sempre in equilibrio con l’ambiente mentre le cultivar coltivate sono produttive solo grazie agli apporti energetici esterni (fertilizzanti, antiparassitari, meccanizzazione, irrigazione, ecc.).
     Il miglioramento genetico e la rivoluzione verde
Il miglioramento genetico delle piante è in atto da quando esiste l’agricoltura, ma quello su base scientifica è cominciato solo agli inizi del XX secolo. Le strategie di un programma di miglioramento dipendono dal sistema di riproduzione della pianta e dal suo ciclo biologico. I piani di riproduzione possono essere divisi come in tabella [  14  ]:
Dal programma agricolo messicano della Fondazione Rockefeller, poco dopo la seconda guerra mondiale prese origine quella che venne chiamata la rivoluzione verde.
Negli anni ‘60 del secolo scorso sono state ottenute varietà di grano e di riso [  15  ], i due cereali più importanti del mondo, altamente produttive.
Sembrava chiara la strada da seguire per ottenere incrementi di produzione tali da risolvere il grave problema della fame nel mondo, ma sfortunatamente tale conquista non è riuscita a corrispondere all’attesa: le nuove varietà di cereali hanno avuto grande successo nelle colture specializzate dei Paesi industrializzati, ma si sono rivelate un vero fallimento nei Paesi in via di sviluppo. La loro coltivazione, infatti, richiede l’utilizzo di fertilizzanti e antiparassitari e mezzi moderni di gestione, possibili solo in grandi aziende con molti capitali. Paradossalmente le stesse colture ottenute per sfamare i Paesi del Terzo Mondo sono risultate adatte a un’agricoltura di tipo europeo o americano e non all’agricoltura povera e la ricerca anche di un’agricoltura produttiva ed economicamente redditizia ha fatto perdere di vista l’obiettivo primario: il risultato è che i Paesi sottosviluppati sono rimasti tali.

     Le risorse genetiche
Negli ultimi 70 anni l’agricoltura mondiale ha avuto uno sviluppo notevole alla ricerca dell’aumento della produttività e della qualità. Uno dei principali obiettivi è stato la ricerca di uniformità genetica: le moderne varietà più produttive, derivando dall’utilizzazione dello stesso materiale, sono geneticamente molto simili. Promuovere l’uniformità ha eroso la biodiversità delle specie coltivate ed è stata la causa, a giudizio di molti scienziati, dei più gravi disastri agronomici degli ultimi due secoli (la grande carestia del 1845, che portò alla morte 2 milioni di irlandesi, la distruzione del caffè nelle piantagioni di Ceylon, la perdita di metà del raccolto del mais in California nel 1970).
Al pari di ogni altra risorsa preziosa è necessario conservare e proteggere, come risorsa genetica fondamentale, tutti i geni e le numerose combinazioni genetiche contenute nelle specie vegetali [  16  ].
La risorsa genetica può essere definita come: “materiale biologico contenente un’informazione genetica che può essere specifica o caratterizzata da elevata variabilità”.
La variabilità genetica naturale delle specie economicamente importanti è rappresentata da tre distinti livelli (primario, secondario, terziario).
Livello primario, costituito da varietà primitiverazze indigene ed ecotipi. Uno dei primi studiosi ad aver preso coscienza dell’importanza delle risorse genetiche fu Nikolai Vavilov, che negli studi compiuti negli anni ’20 del Novecento, scoprì che, nelle aree per lo più montuose e poco accessibili dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, i raccolti presentavano grande variabilità genetica. Tali aree non erano state raggiunte dai moderni sistemi di coltivazione e ciò dimostra che in assenza di forti pressioni selettive (indotte soprattutto dall’uomo) la eterogeneità mantiene le specie in equilibrio con l’ambiente.
L’importanza della presenza di razze indigene risiede:
a) nella possibilità che esse hanno di contenere uno o due geni che condizionano uno specifico carattere di importanza economica (ad es. resistenza alle malattie e ai fitofagi [  17  ]);
b) nella grande adattabilità ad ambienti diversi poiché in centinaia di generazioni si sono verificati numerosi processi selettivi di adattamento [  18  ].
Livello secondario, costituito da specie selvatiche o spontanee affini a quelle domesticate [  19  ]. Sempre più spesso si fa ricorso alle risorse genetiche delle specie selvatiche affini a quelle coltivate poiché esse contengono caratteristiche di forte resistenza alle malattie che invece colpiscono le specie affini coltivate.
Livello terziario, costituito da varietà progrediteottenute dai coltivatori negli ultimi 100 anni. Si tratta di varietà un tempo coltivate [  20  ] e oggi in abbandono: le più antiche sono oggi dei veri e propri pezzi da museo.
Tali varietà, selezionate prima della diffusione delle colture intensive, dei fertilizzanti e dell’irrigazione, possono avere caratteristiche di adattamento ad ambienti meno favorevoli o di resistenza a parassiti oggi rari, ma che potrebbero rendersi necessarie in futuro.

     CONSERVAZIONE DELLE RISORSE GENETICHE
Delle 250.000 specie di Angiosperme presenti oggi sulla Terra, la gran parte che si è mantenuta geneticamente stabile nel tempo è quella rimasta nell’habitat originario; le altre, distribuite in altri siti o sottoposte ad addomesticazione, hanno subìto notevoli cambiamenti. Poiché le risorse genetiche, prima illimitate, oggi sono a rischio per la sostituzione delle coltivazioni tradizionali con nuove e più produttive cultivar, il problema della conservazione delle risorse genetiche ha assunto il ruolo di priorità.
Mantenere il livello di variabilità delle colture è indispensabile per evitare:
• l’evoluzione di specie di patogeni sempre più resistenti o con effetti ancora imprevedibili;
• la perdita di pool genetici e della loro tipicità nelle zone di origine causata anche dal flusso continuo di materiale genetico dai Paesi industrializzati a quelli in via di sviluppo.
La salvaguardia della biodiversità 21  ] passa attraverso alcuni punti fondamentali come il reperimento del germoplasma, la caratterizzazione e la sua conservazione.
Il germoplasma è l’insieme di tutte le cellule che trasmettono il messaggio ereditario per lo sviluppo di piante e animali.
Per assolvere questi compiti sono state istituite nel mondo circa 50 banche del germoplasma, distribuite fra Paesi sviluppati (poveri di risorse genetiche) e Paesi sottosviluppati (ricchi di risorse genetiche).
Le regioni del Mediterraneo per le loro caratteristiche naturali e storiche conservano ancora una grande ricchezza di specie e di varietà e specie selvatiche rare che devono essere preservate  22  ]. Per questo fine vanno diffondendosi in tutto il mondo i Centri di Studi e Ricerca per la conservazione del germoplasma vegetale.
     METODI PER LA CONSERVAZIONE DEL GERMOPLASMA VEGETALE
Gli interventi di conservazione delle risorse genetiche si distinguono tradizionalmente in conservazione in situ ed ex situ: con la prima i materiali vengono conservati nei luoghi di coltivazione o di vegetazione naturale, mentre la seconda viene effettuata in ambienti naturali o artificiali diversi da quelli di origine.
Un altro metodo di classificazione è basato sul criterio evolutivo e può essere:
statica (l’informazione genetica da salvare è mantenuta invariata, sottraendola ai processi evolutivi tipici degli ambienti naturali);
dinamica (lasciando svolgere naturalmente i processi evolutivi, induce progressivamente l’adattamento del materiale biologico).
Conservazione statica È la forma più utilizzata per le specie di interesse agrario e per le specie selvatiche. Essa viene effettuata prevalentemente ex situ mediante:
- banche dei semi: utilizzate per la maggior parte delle specie selvatiche e coltivate. I semi sono conservati a basse temperature (tra i 230 °C e i 15 °C) in locali attrezzati e per periodi anche molto lunghi;
- collezioni in campo: è il metodo più usato per la conservazione del germoplasma di specie erbacee e arboree sottoposte a propagazione vegetativa.
- colture in vitro: consiste nell’allevamento su substrato nutritivo in condizioni sterili di organi, tessuti ecc.; questo metodo non è ancora diffuso in quanto necessita di approfondimenti per evitare l’instabilità genetica conseguente alle numerose subcolture;
- crioconservazione, molto diffuso fra le specie animali, si può applicare a semi, embrioni o tessuti meristematici che vengono mantenuti in vapori di azoto a temperature inferiori a −150 °C; tale metodo garantisce la massima stabilità genetica;
- conservazione di frammenti di DNA: si tratta di una tecnica in crescente sviluppo e promettente per le specie agrarie, ma che non è ancora diffusa su vasta scala.
Conservazione dinamica Lo scopo di tale metodo di conservazione è ottenere l’adattabilità delle popolazioni alle modificazioni ambientali, resa possibile a sua volta dalla conservazione della loro variabilità genetica.
La conservazione del germoplasma si effettua ex situ e in situ.
La conservazione dinamica ex situ si effettua mediante:
- collezioni in campo, un metodo usato per numerose specie a riproduzione sessuale interessate da fenomeni di flusso genetico. Rientrano in questa categoria i campi catalogo, gli arboreti da seme e le parcelle sperimentali;
- rimboschimenti, che sono considerati un metodo di conservazione ex situ quando vengono costruiti con materiali di propagazione rappresentativi della variabilità genetica della popolazione di origine.
La conservazione dinamica in situ si effettua mediante:
- aree protette, caratterizzate dalla conservazione degli ecosistemi al completo;
- riserve di biodiversità, dove in esse vengono perpetuate le pratiche agronomiche tradizionali al fine di conservare varietà primitive e razze locali. All’interno di esse possono essere create delle riserve genetiche per la conservazione di progenitori selvatici.
La conservazione in situ è la più indicata per le specie forestali poiché può meglio garantire il mantenimento dell’adattabilità genetica in condizioni ambientali soggette a modificazioni globali (cambiamenti climatici, inquinamento).
Per le stesse specie la conservazione ex situ non è molto indicata a causa del lungo ciclo vitale e della possibile perdita di geni per effetto della deriva genetica.

NUOVE Biotecnologie Agrarie e Biologia Applicata
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