NUOVE Biotecnologie Agrarie e Biologia Applicata

12 Utilizzazione industriale di microrganismi ed enzimi microbici per l’industria agroalimentare (a), farmaceutica (b), per la tutela dell’ambiente (c).

I progressi della genetica microbica e le tecniche dell’ingegneria genetica sono stati applicati ai ceppi di interesse industriale e hanno prodotto microrganismi transgenici, il cui metabolismo orientato consente di produrre in grande quantità sostanze utili per l’industria farmaceutica, l’industria agroalimentare e le problematiche ambientali [ 12 ].
     Industria farmaceutica
Si può dire che la storia delle biotecnologie abbia inizio con la realizzazione di prodotti per la salute: negli anni ’40 del secolo scorso, durante la seconda guerra mondiale, era urgente avere disponibilità di farmaci per curare i feriti. Fu così che fu messo a punto il processo di produzione del primo antibiotico. Da allora, anche con l’uso delle biotecnologie, importanti traguardi sono stati raggiunti ed altri sono ancora in fase di studio nel settore della diagnosi, della terapia e della profilassi. 
La diagnostica utilizza gli anticorpi monoclonali di cui si è già parlato, per la diagnosi di epatite B, infarto e di alcuni tumori. In terapia, iniziando con gli antibiotici sono in uso ormoni ed enzimi quali l’insulina, l’ormone della crescita, l’attivatore tissutale del plasminogeno, ottenuti da microrganismi modificati. Nella profilassi, l’impiego di vaccini ricombinanti è il miglior modo per scongiurare infezioni senza incorrere in effetti collaterali.

     ANTIBIOTICI
Gli antibiotici sono sostanze che, prodotte da batteri, muffe o anche piante hanno le proprietà di uccidere determinati microrganismi. La loro scoperta fu fatta da Alexander Fleming nel 1928 in una coltura di muffa di Penicillium notatum [ 13 ] e “penicillina” fu il nome del primo antibiotico. Oggi la produzione industriale di questo antibiotico avviene utilizzando il ceppo Penicillum chrysogenum, molto più ricco di penicillina. Dopo la prima scoperta numerose altre molecole si sono dimostrate attive contro una vasta gamma di batteri patogeni: le cefalosporine, prodotte dal fungo Cephalosporium acremonium, la streptomicina, derivata da batteri grampositivi aerobi, gli attinomiceti, del genere Streptomyces, e le tetracicline prodotte da Streptomyces viridifaciens. 
Gli antibiotici in natura sono elaborati dai microrganismi, come prodotti secondari del metabolismo (metaboliti secondari), non sono indispensabili alla loro vita, anzi in una prima fase sono dannosi. L’industria sfrutta questi microrganismi: con mutazioni indotte e selezione ha ottenuto ceppi particolarmente produttivi, capaci di superare velocemente la prima fase in cui i microrganismi sono sensibili ai loro stessi antibiotici, per passare velocemente alla seconda in cui il livello produttivo si alza. Oggi a seconda degli effetti che hanno sui batteri, gli antibiotici si distinguono in: 
batteriostatici, che bloccano la crescita del batterio; 
battericidi, che uccidono i batteri. 
Per quanto riguarda i meccanismi d’azione, si possono individuare: 
1. distruzione della parete batterica (con conseguente morte del microrganismo). In questo modo agiscono, per esempio, le penicilline e le cefalosporine; 
2. alterazione della sintesi proteica dei batteri che ne blocca la capacità di crescita; 
3. alterazione della sintesi degli acidi nucleici dei batteri che ne impedisce la crescita. 
Il processo che viene utilizzato per determinare le diverse sensibilità di vari batteri è detto antibiogramma
Purtroppo, l’uso eccessivo e inappropriato negli uomini e negli animali di queste sostanze sta contribuendo ad accelerare drammaticamente il fenomeno dell’antibiotico-resistenza, il processo naturale per cui i batteri diventano resistenti a quegli antibiotici che una volta erano in grado di sconfiggerli. 

     INSULINA
L’insulina è un ormone prodotto dal pancreas; chimicamente è una proteina (due catene di 21 e di 30 amminoacidi). Ha la funzione di stimolare il catabolismo del glucosio e di regolare l’utilizzazione degli zuccheri. La sua carenza causa una malattia nota come diabete mellito
La terapia del diabete è da molti anni attuata con la somministrazione di insulina prodotta da pancreas animale, che differisce da quella umana per un amminoacido. Sembrerebbe una piccola differenza, invece è sufficiente a causare pericolose allergie e, quindi, prima di essere utilizzata, l’insulina animale deve subire vari passaggi di purificazione.
L’obiettivo di ottenere insulina simile a quella umana è stato raggiunto con le tecniche dell’ingegneria genetica [ 14 ] inserendo il gene d’insulina umano in un batterio che, divenuto ricombinante, viene prodotto su larga scala secondo una tecnica definita di fermentazione. 1 m3 di coltura batterica produce 200 g di insulina che si otteneva da ben 1.800-2.000 kg di pancreas animale. Prima di essere commercializzata la proteina viene purificata e analizzata.

FOCUS

BATTERIO ESCHERICHIA COLI 

Escherichia coli è un batterio Gram-negativo, asporigeno, dotato di flagelli peritrichi il cui nome deriva dalla scienziato tedesco Theodor Escherich che lo scoprì. Si trova abitualmente nell’intestino animale dove in genere non è dannoso, anche se esistono rare varietà nocive. Ha forma allungata a bacillo e dimensioni microscopiche, della lunghezza media di 1-2 μm, possiede un solo cromosoma circolare e si riproduce velocemente per scissione, formando nel giro di poche ore, sulle piastre di agar o su mezzi liquidi, colonie di cloni con decine di milioni di cellule. Queste caratteristiche si sono rivelate importanti per studi di biochimica e genetica molecolare e hanno reso E. coli un utile organismo modello per ricerche di base e un ottimo bioreattore per la produzione di proteine umane.

     ORMONE DELLA CRESCITA (GH O SOMATOTROPO)
Si tratta di una proteina (una catena di 191 amminoacidi) prodotta dalle cellule del lobo anteriore dell’ipofisi, con la funzione di stimolare la crescita delle ossa e del corpo. La carenza è causa del nanismo ipofisario, la cui unica terapia in passato era la somministrazione di ormone di origine umana e che veniva ricavato dall’ipofisi dei cadaveri. 
Somministrare ormone di origine umana comporta molte difficoltà sia nel trovare il materiale sia nella possibilità di trovarlo contaminato da prioni responsabili di quella forma degenerativa nota come sindrome di Creutzfeldt-Jakob. La tecnica del DNA ricombinante ha risolto questi aspetti. 
Tale tecnica consiste nel prendere il gene di cui si necessita la sintesi e inserirlo nel DNA di un organismo vivente, generalmente un batterio come Escherichia coli. Quando il batterio replica il proprio DNA, riproduce automaticamente il gene che gli è stato innestato e sulla base delle sue informazioni sintetizza la proteina (GH) che poi è estratta, purificata e utilizzata secondo le necessità. L’ormone della crescita da DNA ricombinante (rGH) che viene utilizzato oggi è strutturalmente, chimicamente e biologicamente equivalente all’ormone umano, ed è prodotto nelle quantità programmate e non comporta nessun rischio di infezioni. 

     ATTIVATORE TISSUTALE DEL PLASMINOGENO
È un enzima, chimicamente una proteina (una catena di 527 amminoacidi). Nell’organismo viene prodotto dai tessuti degli endoteli vasali con il compito di attivare il plasminogeno trasformandolo in plasmina, sostanza capace di rendere solubile la fibrina. 
Questa sostanza è il polimero che, trattenendo come una rete le piastrine, forma un trombo. In condizioni normali, in caso di lesione arteriosa l’attivatore si libera e produce plasmina che scioglie il trombo; non così in caso di malattie trombotiche, responsabili di molti decessi nei Paesi industrializzati. 
L’attivatore tissutale del plasminogeno [ 15 ] viene oggi prodotto con le tecniche del DNA ricombinante che hanno consentito l’ampia disponibilità di questa sostanza. 

     VACCINI
I vaccini sono in grado di stimolare il sistema immunitario a produrre una risposta che conferisce protezione (immunità) contro una specifica malattia e attivare nello stesso tempo una “memoria immunitaria” di questa prima risposta. Le radici di queste strategie risalgono a Jenner e Pasteur, che hanno rispettivamente scoperto il vaccino contro il vaiolo e la rabbia. Una volta che è stato identificato il responsabile di una determinata malattia infettiva, un microrganismo oppure una sua tossina, è possibile adottare diverse strategie per sviluppare un vaccino specifico. I vaccini si distinguono in tradizionali e nuovi, ottenuti con tecniche ricombinanti. 
I primi sono: 
vaccini inattivati prodotti uccidendo il microrganismo responsabile della malattia con calore o raggi UV o con sostanze chimiche (acetone, betapropiolattone, fenolo). Sono vaccini sicuri perché i microrganismi trattati in questo modo non possono ritornare alla forma patogena. Sono anche stabili, tanto che non è necessario di solito conservarli in frigorifero e per questo motivo, sono particolarmente adatti per l’utilizzo nel terzo mondo. 
Hanno però uno svantaggio: la maggior parte dei vaccini inattivati induce una protezione immunitaria relativamente debole, che richiede la somministrazione di diversi richiami. Sono esempi di vaccini inattivati quello contro l’Epatite A, la poliomielite e antinfluenzale. Poiché il virus influenzale cambia ogni anno, la composizione del vaccino viene decisa, su indicazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), in base ai ceppi che si prevede circoleranno maggiormente durante il periodo invernale; 
vaccini vivi attenuati: sono prodotti coltivando il microrganismo in laboratorio in condizioni particolari per fare in modo che esso, da una parte perda la sua capacità di provocare la malattia, dall’altra conservi la capacità d’indurre una risposta immunitaria nel soggetto. 
Sono esempi di virus attenuati: morbillo, rosolia, parotite, varicella, febbre gialla e tubercolosi. Richiedono di solito speciali accorgimenti di conservazione, ma hanno il vantaggio di determinare una buona risposta immunitaria con un’unica somministrazione o al massimo con un solo richiamo; 
vaccini ad anatossine: prodotti utilizzando molecole provenienti dall’agente infettivo, non in grado di provocare la malattia, ma sufficienti ad attivare le difese immunitarie dell’organismo. Le anatossine sono esotossine che hanno perso la propria tossicità, ma hanno mantenuto la caratteristica di antigene; e sono in grado di stimolare la produzione di anticorpi senza arrecare danno all’organismo. Ne sono esempio i vaccini per tetano e difterite. I vaccini tradizionali, formulati con microrganismi patogeni uccisi o viventi ma attenuati, sono di alta efficacia ma non privi di effetti collaterali che possono arrivare addirittura all’encefalite postvaccinica o risultare difficoltosi da produrre con caratteristiche costanti. Importante è l’introduzione di vaccini con tecniche ricombinanti. 
Si possono classificare i vaccini di nuova generazione, nei seguenti gruppi. 
Vaccini a Dna ricombinante prodotti a partire dalle porzioni del DNA dei microrganismi che codificano per un determinato antigene. Clonando e producendo una grande quantità di esso. Il primo ad essere prodotto è stato il vaccino antiepatite B [ 16 ] prodotto inserendo il gene S del DNA virale che codifica l’antigene di superficie del virus dell’epatite B in un plasmide. Questo lo trasporta nella cellula di lievito che esprimerà la proteina p24, cioè il vaccino. La disponibilità pressoché illimitata del vaccino ha consentito vaccinazioni di massa con la speranza di debellare la malattia. 
Vaccini di subunità o ad antigeni purificati: costituiti non dall’intero microrganismo, ma solo da alcuni antigeni. Ultimamente, nella produzione di vaccini di subunità, si sta utilizzando molto un virus degli insetti, il Baculovirus. Mediante la tecnica del DNA ricombinante è stato ottenuto il primo vaccino di subunità contro il virus dell’Afta epizootica (VFA) a metà degli anni ’80 del secolo scorso. Ad esso seguirono altri vaccini, come quelli contenenti gli antigeni dei batteri che causano la pertosse (Bordetella pertussis) e la meningite (Haemophilus influenzae). La vaccinazione antipertosse [ 17 ] è attuata con la tossina estratta dall’agente patogeno della malattia, la Bordetella pertussis, in passato non era priva di effetti collaterali. 
L’individuazione del gene produttore della tossina antipertosse, l’introduzione in esso di due mutazioni e la sua reinserzione nella Bordetella pertussis ha fatto sì che questa producesse una tossina capace di produrre antigeni ma non tossica. 
Il vaccino ricombinante, oggi disponibile, non presenta alcun rischio. 
Lo schema [ 18 ] riepiloga quanto deriva dal settore microbiologico e biotecnologico a vantaggio della salute umana.

     Industria agroalimentare
Il fatto che i prodotti che arrivano sulla nostra tavola derivino semplicemente dal lavoro del contadino è ormai vero solo in parte. 
Molti degli alimenti oggi a nostra disposizione sono stati sottoposti a qualche trattamento biotecnologico, la qual cosa ci impone molte domande e interrogativi sui risvolti che tali trattamenti possono avere sulla nostra salute. 
Le biotecnologie tradizionali sono divenute innovative in seguito alla possibilità di intervenire geneticamente sui microrganismi che le inducono. 
Il settore coinvolto è l’intera industria di trasformazione e conservazione che oggi utilizza: 
- coadiuvanti biotecnologici e additivi per migliorare le caratteristiche organolettiche o di conservabilità degli alimenti; 
- biosensori, mezzi di controllo della contaminazione chimica e biologica dei cibi.

     COADIUVANTI TECNOLOGICI E ADDITIVI
Durante la lavorazione dei prodotti alimentari vengono spesso aggiunte sostanze prive di valore nutritivo [ 19 ]. 
Esse vanno a migliorare le fasi di produzione o a conferire maggiore stabilità all’alimento finito: sono i cosiddetti additivi (acidificanti, aromatizzanti, dolcificanti, enzimi). 
Se tali sostanze vengono aggiunte per rispettare un determinato obiettivo tecnologico, si chiamano invece coadiuvanti tecnologici (enzimi). Additivi e coadiuvanti tecnologici vengono utilizzati da tempo nell’industria agroalimentare che li estrae da prodotti naturali o li prepara per sintesi chimica; oggi vengono ottenuti anche da microrganismi selezionati o ingegnerizzati. 
Acidificanti Alcuni ceppi microbici producono metaboliti primari in grande quantità. 
L’Aspergillus niger produce acido citrico a partire dalla melassa. Il Lactobacillus delbrueckii produce l’acido lattico utilizzato dall’industria alimentare per acidificare succhi e polpa di frutta, bevande analcoliche, gelati, prodotti dolciari. 
Aromatizzanti Presenti naturalmente negli alimenti, possono essere aggiunti intenzionalmente per esaltarne il gusto. 
La vaniglia, usata nell’industria dolciaria, è estratta da una orchidea del Madagascar, ma se ne ottiene una maggior quantità dalla coltura di cellule vegetali. Dal Corynebacterium glutamicum si ottiene glutammato, di per sé insapore, ma capace di aumentare la sapidità dei cibi. Usato soprattutto dalla cucina orientale, che lo estraeva da un’alga, oggi lo si ottiene attraverso la biotecnologia; viene impiegato per salse, conserve di carne e di pesce, paste ripiene, purè, gnocchi. 
Dolcificanti Sostituiscono saccarosio e glucosio, poiché hanno maggiore potere dolcificante e minore apporto calorico. Nella produzione del pane e nell’industria dolciaria si usano amilasi prodotte da Bacillus amyloliquefaciens [ 20 ] per favorire l’idrolisi degli amidi o del maltosio e preparare sciroppi zuccherini. Ci sono poi edulcoranti di natura proteica, come la taumatina; estratti da piante esotiche sono utilizzati per i prodotti di confetteria, per le gomme da masticare e per preparati dietetici. 
Enzimi Possono essere usati sia come additivi (per intenerire le carni) o come coadiuvanti, ad esempio il caglio aggiunto al latte per produrre formaggio. 
A seconda del substrato su cui si sviluppano, gli enzimi si suddividono in proteasi, glucidasi, lipasi. 
Proteasi Sono gli enzimi che degradano le proteine, tra essi il più importante è la rennina: la produzione del formaggio prevede, per la coagulazione del latte, l’impiego di un complesso di enzimi, tra i quali prevale la rennina (chimosina), contenuti nell’abomaso di vitelli lattanti [ 21 ]. 
Estratto dalle cellule del pancreas di bovini lattanti, il gene che codifica l’enzima viene inserito nel batterio Escherichia coli, che acquisirà la capacità di produrlo in grande quantità come metabolita secondario. La “rennina ricombinante” ha le stesse caratteristiche di quella naturale e consente di produrre un formaggio chiamato dagli americani “formaggio vegetale” [ 22 ]. 
Proteasi da Aspergillus vengono usate al posto dell’enzima vegetale papaina, estratto dalla papaia, per ammorbidire la carne. 
Glucidasi Degradano i polisaccaridi; molto importanti sono le amilasi per l’idrolisi dell’amido: alfa-amilasi, betaamilasi, isoamilasi, glucoamilasi vengono prodotte da diverse specie di Bacillus e Saccharomyces. Le pectinasi da Aspergillus niger intervengono nella chiarificazione di vini e succhi di frutta, la lattasi da Saccharomyces per idrolizzare il lattosio e produrre latte delattosato per coloro che sono intolleranti a questo zucchero. La glucosio-isomerasi trasforma l’amido di mais in una miscela di glucosio e fruttosio al 50%, detta sciroppo di glucosio, richiesto dall’industria dolciaria in quanto, a parità di potere dolcificante, è più pratico ed economico del saccarosio. 
Lipasi Degradano i grassi e sono prodotte da ceppi selezionati dei generi Bacillus, Aspergillus e Mucor. Queste sono meno utilizzate rispetto agli enzimi precedenti, vengono impiegate insieme ad essi nel processo di maturazione del formaggio e trasformano una cagliata insapore in un formaggio dalle caratteristiche organolettiche ben definite: Penicillium roqueforti per il roquefort o il Penicillium glaucum per il gorgonzola. 
Sono allo studio nuovi ceppi batterici ingegnerizzati per la produzione di enzimi utili o da usare come “coltura di inizio” per indirizzare il processo di caseificazione verso le caratteristiche cercate.

     BIOSENSORI
Sono strumenti di analisi costituiti da materiale biologico (cellule batteriche, enzimi, anticorpi) immobilizzati su supporto solido messo a contatto con un sensore che converte il segnale biologico in un segnale elettrico registrabile da uno strumento.

In maniera schematica, il biosensore è costituito da un elettrodo con sensore elettrochimico collegato ad una membrana permeabile cui è fissato l’enzima, l’anticorpo o le cellule batteriche capaci di reagire specificamente con il substrato che si cerca. 
In presenza del substrato avverrà la reazione: 

SUBSTRATO DA DETERMINARE + MATERIALE BIOLOGICO➜PRODOTTI* 
*(la concentrazione è determinata per via potenziometrica o amperometrica) 

Uno dei campi di impiego più interessanti dei biosensori è il controllo di qualità degli alimenti. 
Esso è volto alla ricerca di microrganismi (Salmonella), tossine microbiche, residui di fungicidi, insetticidi ed erbicidi nell’acqua o nei cibi. 
In questo settore di analisi trovano impiego gli enzimi immobilizzati [ 23 ]. 
Gli enzimi, che svolgono un ruolo fondamentale nell’industria biotecnologica, sono estratti dai microrganismi che ne producono in gran quantità, ma spesso sono molto costosi. 
Il loro impiego può avvenire usando cellule intere o enzimi isolati. Le cellule intere sono da preferire quando si tratta di far eseguire processi con numerosi passaggi catalizzati da enzimi diversi, altrimenti si preferiscono gli enzimi isolati. 
L’uso di enzimi nei processi industriali, se da un lato offre molti vantaggi (risparmio energetico, uso di soluzioni acquose, alta specificità), dall’altro presenta qualche svantaggio: gli enzimi sono instabili, ed essendo solubili in acqua, è difficile estrarli dal substrato dopo la reazione e riutilizzarli.
Per far fronte al problema si immobilizzano gli enzimi su supporti solidi come acciaio, vetro, ceramica, carbone, opportunamente attivati per legare saldamente l’enzima, oppure si usano scambiatori di ioni che formano un legame più debole. 
Il supporto è permeabile solo ai substrati e ai prodotti di reazione. È così possibile la lavorazione in continuo e un facile recupero dell’enzima alla fine della reazione. Nello schema [ 24 ] sono riepilogati gli utilizzi biotecnologici nel settore alimentare.


24 Schematizzazione dei possibili utilizzi delle biotecnologie nell’industria alimentare.
     Biotecnologie e problematiche ambientali
La criticità dello stato in cui versa l’ambiente è cosa risaputa da tempo. L’intenso sfruttamento delle risorse non rinnovabili, l’urbanizzazione, l’esplosione demografica rischiano di stravolgere il rapporto fra uomo e ambiente. Uno dei maggiori problemi oggi è costituito dall’inquinamento ambientale e dai rifiuti che in alcuni contesti hanno raggiunto dimensioni allarmanti: 
• le emissioni di anidride carbonica nell’aria oltrepassano i 6000 milioni di tonnellate annue; 
• le emissioni gassose (ossidi di azoto e di zolfo, idrocarburi volatili, monossido di carbonio) sono stimate in oltre 215 milioni di tonnellate annue; 
• il consumo di acqua pro capite raggiunge quasi i 3 metri cubi giornalieri; 
• circa 100.000 sostanze chimiche di sintesi vengono utilizzate e si ritrovano poi fra i rifiuti; 
rifiuti solidi urbani e industriali, scaricati sui greti dei fiumi, in cave abbandonate, su terreni incolti, si accumulano nel suolo e nelle acque ed alterano gli equilibri biologici, mettendo a rischio la salute umana [ 25 ]. 
Se da una parte la pianificazione e il riciclo sono di importanza fondamentale (ridurre i rifiuti, produrre rifiuti meno pericolosi, ecc.), dall’altra è necessario individuare tecnologie avanzate per il disinquinamento e per il recupero energetico. 
Le tecniche biotecnologiche, con l’ausilio della microbiologia applicata, possono concorrere alla soluzione di questo grande problema dei nostri tempi. I microrganismi, che per primi hanno abitato il pianeta e sono riusciti a produrre l’ossigeno che è stato alla base dell’origine della vita, possono offrirci molte soluzioni per preservare la Terra.

     Microrganismi e biodegradazione
I microrganismi, presenti ovunque, hanno acquisito grazie all’evoluzione la capacità di degradare sostanze organiche, dalle più semplici alle più complesse come legno, cellulosa, terpeni, steroidi. Questo processo, detto di mineralizzazione, è assolutamente necessario per mantenere la vita sulla Terra, ma avviene molto lentamente. ù
Oggi l’enorme sviluppo delle attività industriali e agricole ha riversato in tempi brevi nell’aria, nel suolo e nell’acqua ingenti quantità di sostanze estranee (xenobiotiche), la cui pericolosità dipende dal tempo di persistenza nell’ambiente. 
Al contrario, le sostanze che si modificano, degradate dai microrganismi, sono dette biodegradabili. Sono i batteri del suolo (Alcaligenes, Nocardia, Flavobacterium, Pseudomonas) che, possedendo l’informazione genetica per la produzione di enzimi specifici (preexisting enzymes), trasformano le sostanze dette biodegradabili: composti organici naturali o di sintesi, purché la loro struttura chimica sia simile a quella delle sostanze naturali. 
Per ovviare a questo limite e cercare di allargare il numero delle sostanze biodegradabili, in modo da risolvere il problema degli inquinanti xenobiotici, si seguono alcune strade: 
migliorare la naturale capacità dei microrganismi per indurli a mineralizzare in tempi più brevi; 
selezionare ceppi capaci di metabolizzare sostanze di sintesi non biodegradabili. 
produrre e immettere sul mercato sostanze e materiali facilmente biodegradabili. 
Il fatto che alcuni microrganismi vivano in habitat difficili e inospitali resistendo a metalli pesanti, radiazioni ultraviolette e a substrati insoliti è dovuto alla presenza nelle cellule batteriche dei plasmidi catabolici [ 26 ].

     PLASMIDI CATABOLICI
I primi plasmidi capaci di degradare canfora, alcani, silicati e naftalina furono isolati in laboratorio nel 1970 nell’Università dell’Illinois da Gunsalus e da allora numerose sono state le ricerche sui batteri, soprattutto su Pseudomonas, versatili dal punto di vista nutrizionale e diffusissimi in natura. 
Come sappiamo, i plasmidi hanno la capacità di essere trasmessi e veicolati da un ceppo batterico a un altro con estrema facilità; perciò, una volta individuati i plasmidi catabolici e i relativi enzimi, si cerca di costruire ceppi microbici con capacità degradative anche sugli inquinanti. Le tecniche sono quelle dell’ingegneria genetica applicata in vivo e in vitro. 
Tecnica in vivo In fermentatore, sono coltivate colture miste di Pseudomonas con plasmidi catabolici e ceppi di microrganismi provenienti da discariche e contenenti sostanze di sintesi e sostanze xenobiotiche. Per vie naturali, grazie al fatto che i plasmidi si trasmettono da una cellula all’altra, vengono acquisite nuove capacità metaboliche. 
Alla fine saranno selezionati i ceppi che per coniugazione avranno acquisito i plasmidi catabolici per le nuove sostanze. 
Tecnica in vitro A mezzo di appositi vettori vengono trasferiti da un batterio all’altro i geni catabolici o i frammenti di DNA che codificano per una nuova via enzimatica. 
In pratica si vanno a introdurre nell’ecosistema nuovi organismi ingegnerizzati, indicati con le sigle GMO (Genetically Modified Organisms) o GEM (Genetically Engineered Microorganism). 
La cosa solleva molte preoccupazioni e per questo motivo sono previste norme legislative molto severe. Non potendo prevedere l’evoluzione futura di questi nuovi esseri, si cerca di inattivarli, una volta che abbiano esaurito il loro compito, inserendo nel loro genoma un gene killer che li porta all’autodistruzione. 
Altri batteri sono utilizzati nel processo di produzione della plastica. La plastica è un materiale versatile che dagli anni ’50 del secolo scorso ha letteralmente invaso la vita di tutti i giorni. Mille pregi, ma anche mille difetti: il primo è quello di essere smaltita con difficoltà. Chimicamente la plastica è una macromolecola ottenuta per polimerizzazione di molecole più semplici, ma non è una novità del mondo moderno: i batteri producono plastica da milioni di anni. 
Il loro prodotto (poliidrossibutirrato PHB, un poliestere come tante fibre sintetiche dei nostri indumenti) è utilizzato dai batteri come materiale di riserva. Qualche piccola differenza nella struttura di questi polimeri rispetto a quelli sintetici li rende biodegradabili, ovvero demolibili rapidamente dai microrganismi decompositori dell’ambiente. 
È stata una grande scoperta, che ha creato un’industria che utilizza i batteri per la produzione di plastica biodegradabile da utilizzare nei contenitori per bevande e cibi e in chirurgia per costruire fili di sutura che, dopo aver compiuto la loro funzione, sono riassorbiti dall’organismo. 
Riepiloghiamo nello schema seguente [ 27 ] l’utilizzo biotecnologico di microrganismi.

     Il trattamento dei rifiuti
Per evitare che l’ambiente si trasformi in un deposito di rifiuti e migliorare nel contempo la resa biologica delle discariche, si cerca di risolvere il problema dello smaltimento dei rifiuti (solidi, liquidi e gassosi) utilizzando i microrganismi geneticamente modificati. Il lavoro può essere impostato a due livelli, di previsione e di recupero:
• abbattimento del carico inquinante dei rifiuti;
• recupero di aree contaminate (biorisanamento del suolo).

     ABBATTIMENTO DEL CARICO INQUINANTE
I rifiuti urbani, industriali e agricoli si presentano come rifiuti solidi o liquidi. Il processo di abbattimento del carico inquinante può avvenire in diversi modi. 
Trattamento dei rifiuti solidi (compostaggio) - Il compostaggio, per rifiuti solidi biodegradabili, è una tecnica che vede ancora una volta in primo piano l’azione dei microrganismi. In molti casi rappresenta una valida alternativa a forme di smaltimento che creano allarmanti preoccupazioni immettendo nell’atmosfera gas pericolosi per la salute (ad esempio gli inceneritori) o contaminando il suolo di sostanze percolanti (ad esempio le discariche). 
Il compostaggio è un processo ossidativo esotermico promosso da gruppi di microrganismi (funghi, batteri, attinomiceti) attraverso il quale un substrato organico fermentescibile va incontro a trasformazioni fisico-chimiche di demolizione e di ricostruzione fino alla formazione di humus. 
Il processo è spontaneo in natura e noto fin dall’antichità, quando il letame maturava in concimaia molto a lungo per trasformarsi in fertilizzante, seguendo i lunghi tempi dei processi biologici. 
Oggi gli interventi tecnologici hanno accorciato i tempi e hanno allargato la gamma di provenienza dei rifiuti. 
Il compost [ 28 ] ottenuto, derivato dalla umificazione di rifiuti privi di metalli pesanti e sostanze tossiche, è destinato all’uso agricolo. 
Trattamento delle acque di scarico - Le acque di scarico provenienti dai centri urbani, dalle industrie, soprattutto agroalimentari, e dagli allevamenti zootecnici sono caratterizzate da elevate concentrazioni di sostanze solubili [ 29 ]. 
L’abbattimento di tali inquinanti avviene attraverso sistemi aerobici e anaerobici. 
I sistemi aerobici sono sistemi tradizionali basati sull’impiego di fanghi attivi (colture miste di batteri, lieviti, funghi) che ossidano le sostanze organiche, utilizzando l’ossigeno, fino ad acqua e anidride carbonica. 
Questi sistemi richiedono ampi spazi e impianti costosi dal punto di vista energetico. La rimozione dei nutrienti (azoto e fosforo) disciolti avviene in sezioni aerobiche in cui l’azoto ammoniacale viene ossidato ad azoto nitrico. Questo è rimosso dai batteri denitrificanti che, in sezioni di impianto opportunamente gestite, riducono il nitrato ad azoto elementare. 
La ricerca microbiologica è basata sulla possibilità di isolare specifici cloni capaci di degradare sostanze di origine xenobiotica. Tali cloni, prodotti in colture pure, vengono aggiunti alla popolazione mista già presente nell’impianto di depurazione. 
Nei sistemi anaerobici i reflui sono considerati come materie prime di lavorazione con finalità produttive o energetiche [ 30 ]. 
Dopo alcune fasi che sfruttano processi meccanici e fisici, si applica, infatti, il trattamento anaerobico sfruttando le capacità degradative di popolazioni miste di soli batteri. 
Si tratta di un processo di fermentazione anaerobica che consente di eliminare cattivi odori, smaltire i fanghi riducendoli ad 1/4 del volume e che porta a produzione di biogas costituito per il 60-75% da metano e per il 25-40% da anidride carbonica. Il metano prodotto viene raccolto e utilizzato in parte per il riscaldamento degli edifici oppure, anche se poco redditizio, per produrre energia elettrica. I residui solidi (fanghi disseccati) che contengono azoto, fosforo e potassio, possono essere utilizzati come fertilizzante e per coltivare alghe e piante. I metalli pesanti non rimangono come residuo perché sono degradati da ceppi batterici, prevalentemente i batteri solfato-riduttori, che li riducono a solfuri. 
Trattamento di gas di scarico (biofiltraggio) - I primi processi di filtraggio degli scarichi gassosi nell’aria attraverso microrganismi furono applicati per eliminare sostanze maleodoranti facilmente biodegradabili emesse dai capannoni di allevamenti zootecnici o di produzione di mangimi. Inizialmente l’aria veniva convogliata nel suolo dove si selezionava spontaneamente una flora batterica adatta all’abbattimento degli odori. Oggi sono stati selezionati ceppi microbici capaci di degradare sostanze xenobiotiche e sono stati inseriti su supporti inerti di torba, compost, polimeri espansi attraverso i quali viene convogliata l’aria. 
Un altro problema conseguente alla presenza di inquinanti dell’aria è il problema delle piogge acide che danneggiano in modo prevalente laghi, foreste e monumenti [ 31 ]. 
I composti gassosi dello zolfo che si liberano dalla combustione del carbone ricadono a terra dilavati dalla pioggia che diviene in tal modo acida e corrosiva. Una proposta per risolvere il problema è venuta dall’Istituto di Tecnologia del gas di Chicago tramite l’impiego di batteri che eliminano lo zolfo dal carbone prima della sua combustione.

     BIORISANAMENTO DEL SUOLO (BIOREMEDIATION)
È un metodo per rimuovere composti tossici da terreni e acque inquinate. Lo studio preliminare di terreno e acque rappresenta il primo passo per la caratterizzazione ambientale di un sito da risanare. Questo comporta la ricostruzione dell’uso pregresso e attuale del sito attraverso la raccolta di materiale bibliografico, ma anche attraverso sopralluoghi, rilevamenti e ricerca delle sorgenti di contaminazione e dei recettori antropici ed ambientali. 
Le indagini indirette di tipo geofisico costituiscono uno strumento di valutazione preliminare delle caratteristiche strutturali del sottosuolo investigato, consentendo di individuare e definire la natura di eventuali infrastrutture presenti nel sottosuolo. Le indagini geognostiche consentono poi di definire la lito-stratigrafia dei terreni e le caratteristiche qualitative del sottosuolo insaturo e saturo (falde acquifere). L’elaborazione e l’interpretazione dei dati consentono infine di definire i meccanismi di diffusione dei fluidi (acqua, aria e contaminanti) nel mezzo poroso: analisi chimiche di laboratorio, prove in situ, geologia e idrogeologia completano lo spettro di azioni che definiranno la strategia operativa [ 32 ]. 
I microrganismi utilizzati possono essere di diverse provenienze: 
- microrganismi indigeni: sono soprattutto batteri, ma anche funghi già presenti nell’ambiente prima che fosse contaminato. I microrganismi vengono fatti moltiplicare in una soluzione nutriente di azoto, fosforo e potassio; divenuti più numerosi passeranno poi ad utilizzare il composto inquinante. I nuovi ceppi vengono isolati, posti in fermentatori per clonarli e ridistribuiti sul suolo da decontaminare; 
- microrganismi provenienti da altri habitat: vengono amplificati in situ o ex situ. Servono per programmare interventi per lo smaltimento totale; 
- microrganismi ingegnerizzati in vitro o in vivo: per riconoscere le sostanze xenobiotiche e demolirle. 
La ricerca scientifica ha compiuto nuovi passi importanti in materia di biorisanamento, individuando e impiegando batteri in grado di degradare gli idrocarburi per risanare ambienti inquinati da petrolio. Oltre che nel suolo, anche sulla superficie delle acque marine od oceaniche si possono verificare gravi disastri ambientali. 
Frequentemente assistiamo a veri e propri disastri ambientali conseguenti alla perdita di petrolio da petroliere o piattaforme di estrazione [ 33 ]. 
Accanto alle tecniche di bonifica tradizionali oggi vengono impiegati ceppi di microrganismi (Pseudomonas putida) che si nutrono di idrocarburi e per i quali ogni ceppo ha un idrocarburo preferito (alifatici, aromatici, ciclici, saturi, insaturi) che potrà decomporre solo in presenza di ossigeno, di adeguate quantità di nutrienti. 
Per ottenere risultati migliori sono stati preparati ceppi ingegnerizzati di batteri chiamati mangia petrolio contenenti i geni per degradare i composti fondamentali degli inquinanti. Altre metodologie simili sono messe in atto grazie all’utilizzo di piante fitodepuranti (▶A12).

     La bioestrazione
Molti minerali come rame, uranio, piombo, nichel, mercurio, cobalto, presenti nelle rocce in bassa concentrazione, vengono estratti con l’aiuto di batteri litotrofi (mangiatori di roccia). I batteri litotrofi traggono energia dalla pietra, compiendo la chemiosintesi e producono sostanze corrosive che solubilizzano i minerali presenti. Il Bacillus ferrooxidans ossida il solfuro di rame insolubile a solfato di rame che, divenuto solubile in acqua, viene lisciviato e raccolto in pozze che assumono un bel colore blu. Così concentrato il rame è facilmente estratto. 
I processi di bioestrazione potrebbero venire utilizzati nel riciclaggio degli scarti industriali e per la pulizia di siti contaminati con metalli. 
Nei giacimenti petroliferi, le condizioni sono veramente proibitive: assenza di ossigeno, temperature di 90 °C, pressione fino a 200 atmosfere. L’oro nero si trova intrappolato nelle rocce assieme ad acqua e gas e spesso è difficile estrarlo. 
Di recente sono stati scoperti batteri anaerobi capaci di produrre una sostanza tensioattiva più densa dell’acqua che favorisce l’estrazione e la concentrazione del petrolio. I loro geni sono stati introdotti in forme batteriche, individuate nei fondali oceanici, resistenti alle condizioni estreme dei giacimenti. I microrganismi ingegnerizzati vengono iniettati nelle rocce assieme a nutrienti che consentono loro di riprodursi e l’estrazione è facilitata.

APPROFONDIMENTO 12

La Phythoremediation 

Phythoremediation, dal greco antico wyto-fito (che significa “pianta”), e dal latino remedium (che significa “riequilibrante”), descrive il trattamento dei problemi ambientali (bioremediation) tramite l’uso di piante e tecniche applicate, che mitigano il problema ambientale del suolo senza dover ricorrere a tecniche di scavo e recupero del materiale (suolo) contaminato per smaltirlo altrove. La fitodepurazione mitiga, quindi, le concentrazioni di inquinanti nel terreno, nell’acqua o nell’aria, con l’utilizzo di piante in grado di contenere, degradare o eliminare: metalli pesanti, pesticidi, solventi, esplosivi, derivati del petrolio e altri vari contaminanti.


     Produzione di biocombustibili
Vengono denominati “biomasse” i prodotti che hanno assorbito l’energia solare e che quindi sono potenziali serbatoi di energia utilizzabile. 
Se si potesse immagazzinare e sfruttare direttamente anche una piccola parte dell’energia che arriva dal Sole, i problemi sulla Terra sarebbero risolti. 
La quantità di energia solare fissata dalla fotosintesi e da cui derivano anche i combustibili è una piccola parte (0,06%) dell’energia solare. 
Accrescendo la produttività dei campi, variando i raccolti, scegliendo colture definite energetiche (▶A13), allevando alghe, il margine di utilizzo dell’energia accumulata può aumentare fino a offrire la possibilità di sostituire, almeno in parte, i combustibili fossili con energie rinnovabili. 
Tra le rivoluzioni operate dalle biotecnologie c’è la produzione di energia pulita senza impatto negativo sull’ambiente; i tentativi fatti in questo senso sono: produzione di biogas, alcol come combustibile liquido, idrogeno. 
Le biomasse [ 34 ] non riusciranno presumibilmente a soddisfare tutti i bisogni dell’umanità, ma possono dare un contributo rilevante proprio perché costituiscono una fonte energetica naturale e rinnovabile.

APPROFONDIMENTO 13

Le colture energetiche 

Le colture energetiche sono coltivazioni, sia erbacee che legnose, specializzate a uso energetico e rappresentano una possibile soluzione per diversificare le attuali produzioni agricole e indirizzarle verso impieghi non alimentari. 

L’uso di tali colture ha una importanza sempre maggiore per due ragioni fondamentali: il continuo rinnovo della produzione e la possibilità di sfruttare aree agricole non più utilizzate per colture alimentari (aree set-aside). 

Fra le colture energetiche erbacee si distinguono specie annuali come il girasole, la colza, il sorgo da fibra, il kenaf [ 35 ] e specie perenni come la canna comune e il miscanto o erba elefantina, mentre fra le specie legnose sono di maggiore interesse quelle che possiedono un’elevata resa in biomassa e una buona capacità di ricrescita dopo il taglio (ceduazione), come i boschi cedui tradizionali e le siepi alberate, un tempo ampiamente utilizzati per la produzione di legna da ardere. Un’ulteriore distinzione fra le colture energetiche si basa sulle caratteristiche qualitative: 

1. oleaginose, come il girasole (Helianthus annuus) e la colza (Brassica rapus); 

2. alcoligene, cioè colture zuccherine e amilacee come il sorgo zuccherino (Sorghum bicolor), la barbabietola da zucchero (Beta vulgaris), il topinambur (Helianthus tuberosus) e i cereali; 

3. lignocellulosiche, come il cardo, il sorgo da fibra (Sorghum bicolor) e il kenaf (Hibiscus cannabinus) e la canapa (Cannabis sativa) fra le specie annuali; il miscanto (Mischantus x gigantus), la canna comune (Arundo donax), il cardo (Cynara cardunculus) fra le erbacee perenni e la robinia (Robinia pseudoacacia), la ginestra (Spartium junceum), l’eucalipto (Eucalyptus sp.), il salice (Salix alba), il pioppo (Populus sp.) fra le specie legnose perenni. Essendo queste ultime colture anche potenziali fonti di cellulosa per l’industria della carta, in passato la maggior parte dell’attività di ricerca e di sviluppo è stata indirizzata verso questa filiera chimica. Le colture oleaginose e quelle alcoligene sono destinate alla produzione di biocombustibili liquidi, mentre le colture lignocellulosiche sono utilizzabili come combustibile solido per la produzione di calore e/o elettricità. 

Un’ulteriore distinzione fra le colture energetiche prende in esame due diverse classi. 

Una classe raggruppa le specie coltivate da sempre in Italia per diversi usi: specie erbacee come barbabietola, girasole e colza (di cui si conosce da tempo l’uso per fini energetici poiché producono biodiesel) e specie legnose perenni, come il pioppo o l’eucalipto, utilizzati per la produzione della cellulosa e interessanti anche per la produzione di energia in quanto apportano qualche cambiamento alle tecniche di coltivazione, che passano dagli attuali cicli pluriennali ai cicli a turno breve. Una seconda classe raggruppa le specie spontanee, talora esotiche, non ben conosciute e non ancora utilizzate ma che, per le loro caratteristiche, potrebbero essere introdotte nel nostro sistema agricolo. Si tratta di piante in genere di origine tropicale o sub-tropicale che, essendo adattate a notevoli temperature, elevato soleggiamento, stagioni vegetative lunghe, potrebbero trovare impiego soprattutto nelle regioni del Sud Italia. Le ricerche agronomiche, infatti, sono volte a individuare fra le specie colturali quelle caratterizzate da alta efficienza fotosintetica come le piante a ciclo C4, che possiedono un bilancio energetico favorevole con basso costo energetico e limitata necessità di pratiche agronomiche, quali lavorazioni del terreno, concimazioni, irrigazioni. 

Inoltre, sono state rivalutate alcune colture prima considerate infestanti, come il cardo, la ginestra e la robinia, in grado di crescere in condizioni estreme, in terreni aridi e improduttivi, e anche colture tipiche della fascia subtropicale come il sorgo zuccherino. 

Particolare interesse presentano le ricerche per selezionare le specie più adatte a essere utilizzate esclusivamente per la produzione energetica, a turni brevissimi (Short Rotation Forestry, SRF). Le moderne tecniche colturali tendono ad aumentare la densità di impianto e a ridurre l’intervallo di tempo fra due tagli successivi, fino a portarlo a pochi o pochissimi anni. Le prime esperienze per l’impiego di specie forestali per la produzione di energia a rapido accrescimento e a breve turno di rotazione furono condotte in Svezia nel 1973. Esse riguardano, oltre alla fattibilità economica, i metodi di coltivazione, le condizioni climatiche, le caratteristiche dei suoli, la produzione del materiale necessario per l’avvio di sperimentazioni su larga scala, il controllo delle malattie, i bilanci energetici, l’ottimizzazione delle operazioni di taglio, raccolta e stoccaggio. 

Queste ultime operazioni sono più semplici per piante con bassa umidità, come il cardo (che è una pianta poliennale) o il Miscanthus (che ha un periodo di raccolta capace di prolungarsi per 3÷4 mesi), ma diventano particolarmente difficoltose per le colture zuccherine come la canna da zucchero e il sorgo zuccherino (che sono facilmente fermentescibili e necessitano di lavorazioni rapide durante o subito dopo la raccolta) e per le colture che producono biomassa con umidità superiore al 25÷30% (in particolare il pioppo, la rubinia e il salice sono costituiti per il 50% da umidità). Per queste specie poliennali la raccolta deve essere effettuata ogni 2÷3 anni. 

Per risolvere i gravi problemi della conservazione sono state sviluppate tecniche di disidratazione della biomassa nel campo o in cumuli coperti a seconda del periodo di raccolta e sono state realizzate macchine specifiche come quelle che consentono la raccolta della canna intera del sorgo zuccherino permettendone lo stoccaggio fino a 30 giorni ed evitando così le perdite di zuccheri. 

Va, inoltre, tenuto conto del contributo offerto dalle moderne biotecnologie poiché spesso le colture tradizionali sono state sostituite con varietà transgeniche più resistenti, soprattutto agli insetti. Ciò ha comportato maggiore produttività (circa il 15%) e diminuzione dell’uso di fitofarmaci, con conseguente diminuzione dei costi della bioenergia, che sono stati ridotti di 1/3 negli ultimi 10 anni. 

Recentemente, in diverse zone europee, è tornato alla ribalta l’interesse per la canapicoltura. La canapa, pianta molto diffusa nel mondo, poiché si adatta facilmente a climi e ambienti diversi, per secoli è stata usata come fonte di energia, possiede, infatti, il 17% di cellulosa in più rispetto al legno e ad altre colture.

     PRODUZIONE DI BIOGAS
Il processo consiste nella degradazione di biomasse ad opera dei microrganismi con produzione di anidride carbonica e di metano, il cui potere calorico si aggira intorno alle 5.500 kcal/m3.

Questo processo coinvolge differenti tipi di batteri e di prodotti organici da trattare e può essere così schematizzato: 
idrolisi delle molecole, con degradazione delle sostanze organiche fino a prodotti a basso peso molecolare (acidi organici, idrogeno e anidride carbonica); 
metanogenesi, cioè produzione di metano da decomposizione batterica degli acidi grassi. 
Il processo è determinato da alcuni fattori ambientali, come temperatura (optimum intorno ai 35 °C), pH compreso fra 6,5 e 7,5, composizione del materiale. 

     Produzione di alcol combustibile
Le biomasse interessate per la produzione di alcol sono: colture zuccherine, colture amilacee, materiale ligneocellulosico. 
Colture zuccherine sono la barbabietola da zucchero, la canna da zucchero e il sorgo zuccherino. Quest’ultima coltura, in particolare, viene studiata come coltura industriale da impiantare in terreni impervi. La fermentazione è condotta dal Saccharomyces cerevisiae e produce etanolo senza passaggi intermedi. 
Colture amilacee sono patate, cereali, riso e soprattutto il topinambur, pianta di rapida crescita e poco esigente, ritenuta coltura industriale. La fermentazione deve essere preceduta dall’idrolisi enzimatica dell’amido in zuccheri semplici ad opera dell’alfa-amilasi e della glucoamilasi. 
Materiale ligneo-cellulosico: proviene da colture forestali a rapida crescita (pioppo) e da residui di attività agricole, urbane e industriali (carta, cartone, ecc.). È il processo più complicato a causa della resistenza all’idrolisi di emicellulose, cellulosa e lignina. Dalla cellulosa si ricava glucosio che viene fermentato ad alcol dal Saccharomyces cerevisiae, ingegnerizzato per aumentare la resistenza all’alcol. 
L’utilizzo dell’alcol come combustibile ha avuto un notevole sviluppo dopo il rialzo del prezzo del petrolio e in alcuni Paesi, ad esempio in Brasile, esistono già da tempo distributori di carburante ottenuto dai residui vegetali. Si prospetta, dunque, un futuro in cui i residui di coltivazione, ma anche coltivazioni apposite, forniranno, assieme al metano, buona parte dell’energia necessaria a far funzionare la nostra civiltà, contribuendo drasticamente a ridurre le quote di petrolio e carbone. 

     Produzione di idrogeno
Anche l’idrogeno già rappresenta un combustibile adatto a impieghi su larga scala, anche se esistono ancora alcuni problemi tecnologici legati alla produzione, al trasporto e all’accumulo per tempi lunghi. 
Sono stati selezionati microrganismi fotosintetici, ceppi della famiglia Rhodospirillaceae, capaci di produrre idrogeno da substrati organici. 
I microrganismi fotosintetici sono alghe azzurre, batteri verdi e rossi, microalghe, che vengono appositamente coltivati in impianti appositi al fine di conseguire, a spese dell’energia solare, il duplice scopo di depurare lo scarico e produrre biomassa. 
In particolare, sono i procarioti fotosintetici azotofissatori a costituire sistemi di interesse biotecnologico. 
Questi microrganismi raccolgono in sé la capacità di svolgere la fotosintesi e di fissare l’azoto elementare a mezzo della nitrogenasi per ricavare idrogeno e ammoniaca, prodotti ad alto contenuto energetico a spese dell’energia solare, convertita in energia chimica. I maggiori risultati sono stati ottenuti dal ceppo di Anabaena cylindrica d’acqua dolce.
     Produzione di biofertilizzanti
L’inoculo di specie microbiche costituisce un’applicazione biotecnologica tipica e collaudata per la gestione degli agroecosistemi. 
L’inoculo viene eseguito: 
• disperdendo, nel suolo, la miscela di substrato, “vettore” della popolazione microbica; 
• inserendo un “film di inoculo” subito al di sotto dell’area di suolo dove si introdurranno i semi; 
• ricoprendo i semi stessi con una pellicola di substrato e microrganismi. 
Tra gli organismi più frequentemente utilizzati, in grado di aumentare le rese agricole vi sono, senza dubbio, diversi ceppi di funghi micorrizici (soprattutto VAM = Vescicular Arbuscolar Mycorrizhae) e di batteri azotofissatori (Rizobi), ovvero di popolazioni microbiche che colonizzano e instaurano relazioni stabili, di tipo fisico e chimico, con le radici vegetali. 
È stato tentato anche l’utilizzo di ceppi batterici che colonizzano la rizosfera, ma non instaurano un contatto “fisico” endoradicale. 
Questi ceppi possono: 
1. sintetizzare precursori di sostanze ormonali in grado di stimolare la crescita delle piante (PGR bacteria = Plant Growth Regulating bacteria); 
2. produrre siderofori, ovvero molecole che captano cationi con funzione nutritiva, sottraendoli a popolazioni di microrganismi che competono con le piante per la loro assunzione e rendendoli più facilmente disponibili alle radici della vegetazione colturale.

     Produzione di biofitofarmaci

Un grave problema, più volte esaminato, è quello di proteggere le colture da attacchi di insetti e patogeni che ogni anno distruggono parte dei prodotti destinati all’alimentazione umana. 
Le sostanze di sintesi hanno però generato non poche preoccupazioni per l’ecosistema (rottura degli equilibri naturali, percolazione nel suolo e nelle acque di sostanze non biodegradabili e velenose, rischi per la salute umana). 
Poiché in natura alcuni microrganismi esplicano azione di difesa delle piante da insetti nocivi e da Crittogame, sono stati prodotti insetticidi batterici, insetticidi virali e fitofarmaci costituiti da funghi (▶A14). 
Questi preparati microbiologici offrono maggiori vantaggi rispetto alle sostanze di sintesi: minori rischi per la salute umana e per l’ambiente, biodegradabilità e facile metabolizzazione da parte degli organismi presenti nell’ecosistema, assenza di fenomeni di resistenza, alta specificità dell’intervento.

APPROFONDIMENTO 14

Esempio di prodotto commerciale: insetticida biologico selettivamente attivo sulle larve di lepidotteri 

Caratteristiche: il prodotto va impiegato appena compaiono le larve. È preferibile operare nel tardo pomeriggio, per minimizzare gli effetti negativi della ventilazione dei raggi U.V. È consigliabile ripetere il trattamento una seconda volta a distanza di 7-14 gg in relazione al grado di infestazione da combattere. 

Composizione: Bacillus thuringiensis subsp. aizawai, ceppo ABTS 1857 10 g (potenza 15.000 U.I./mg di formulato). 

Miscibilità: il prodotto è compatibile con la maggior parte dei prodotti fitosanitari, ad eccezione di quelli nettamente alcalini come la poltiglia bordolese che ne riduce l’efficacia. 

Registrazione: No 11793 del 09-09-2003. 

Formulazione: WG - Granuli disperdibili in acqua (anche DG e DF).

     INSETTICIDI BATTERICI
Il batterio più importante è il Bacillus thuringiensis che, mentre produce due esotossine, alfa e beta (quest’ultima tossica anche per i vertebrati), durante la sporificazione produce un’endotossina, un cristallo proteico con attività insetticida [ 36 ]. 
I batteri producono tossine variabili a seconda dei ceppi: la delta-endotossina, attiva contro i lepidotteri, e la tossina P attiva contro lepidotteri e ditteri. 
La delta-endotossina è l’insetticida biologico più promettente perché non è attiva come tale e perciò non è tossica per l’uomo e per gli altri vertebrati. Essa diviene attiva solo in ambiente alcalino, come nell’intestino degli insetti. 
In seguito a selezione è stata eliminata la maggior parte delle esotossine e sono state costruite varietà attive anche contro altri insetti.

     INSETTICIDI VIRALI
Molti virus, sia a DNA sia a RNA, hanno mostrato specificità nei confronti di insetti fitofagi e acari. Il più studiato è il Baculovirus [ 37 ], un virus a DNA a forma bastoncellare, protetto in un cristallo proteico.
Quando le particelle virali sono impacchettate in numero enorme nel cristallo si ha il virus della poliedrosi virale NPV; quando lo sono singole particelle si ha il virus della granulosi GV.
Come il Bacillus thuringiensis, il virus infetta l’intestino degli insetti.

     FUNGICIDI
Circa 400 ceppi di funghi, appartenenti ai Ficomiceti, Ascomiceti, Basidiomiceti e Funghi mitosporici, sono patogeni per gli artropodi. Fra i mitosporici va ricordato il genere Beauveria [ 38 ], con il quale fu eseguito uno dei primi esperimenti riusciti di lotta biologica.
I funghi infettano l’insetto attraverso il tegumento perciò, non essendone necessaria l’ingestione, possono essere utilizzati anche contro gli insetti che succhiano la linfa.
L’infezione avviene generalmente attraverso conidiospore che si formano su insetti morti; unica eccezione è il Verticillium lecanii che forma spore anche su insetti vivi.
L’ambiente per la loro diffusione deve essere molto umido.

NUOVE Biotecnologie Agrarie e Biologia Applicata
NUOVE Biotecnologie Agrarie e Biologia Applicata