6  L’ingegneria genetica

L’ingegneria genetica comprende tutte quelle tecniche che consentono di trasferire ad alcune cellule viventi la capacità, ereditaria, di sintetizzare sostanze utili. 
Questo processo si svolge con una sequenza di più fasi: identificazione, isolamento, trasferimento del gene. 
L’identificazione del gene [ 37 ] che produce una ben determinata proteina è forse la parte più complessa del processo. 
Innanzitutto bisogna conoscerne la localizzazione nel genoma, per poterlo isolare integro [ 38 ]. 
Negli eucarioti i geni sono molto discontinui e per ovviare a questo inconveniente si ricorre a un enzima, la trascrittasi inversa [ 39 ], che è in grado di costruire una molecola di DNA partendo dall’mRNA corrispondente al gene desiderato: tale procedura consente di costruire una molecola di DNA duplex o cDNA sulla quale sarà facile lavorare. 
L’isolamento avviene grazie a particolari “forbici” molecolari, gli enzimi di restrizione (endonucleasi) [ 40 ]. 
Presenti normalmente nei batteri, che li utilizzano per tagliare il DNA dei batteriofagi e “restringere” così la loro aggressività, gli enzimi di restrizione sono stati scoperti negli anni ’60 del Novecento. 
Gli enzimi di restrizione sono endonucleasi che riconoscono e tagliano il DNA a livello di una specifica sequenza nucleotidica di 4-8 bp detta sito di restrizione
Poiché enzimi diversi riconoscono sequenze nucleotidiche diverse, ogni enzima ha una sua caratteristica specificità. 
Nei batteri essi costituiscono un sistema di difesa naturale che distrugge eventuali molecole di DNA estraneo proteggendoli da infezioni virali. Il nome di ciascun enzima di restrizione deriva dalle prime tre lettere, scritte in corsivo, prese dalla nomenclatura binomiale del batterio di origine, da una lettera maiuscola, che identifica un ceppo particolare di quel batterio, e da un numero romano che indica l’ordine di scoperta, qualora dallo stesso batterio vengano isolati enzimi diversi. Ad esempio: Eco RI (si legge “Eco erre primo”) deriva da Escherichia coli Ry13 (I enzima isolato), Eco RII da Escherichia coli R245 (II enzima isolato). Esistono due tipi di questi enzimi: alcuni tagliano di netto la molecola di DNA (taglio tronco), altri tagliano la molecola di DNA con una sfasatura di alcuni nucleotidi in specifiche sequenze di 4-6 nucleotidi, dette palindromi, che possono essere lette in entrambi i sensi senza mutare di significato. Il luogo in cui avviene il taglio è detto sito di restrizione
Il taglio può essere tronco o sfasato. 
Taglio tronco Taglio sfasato 
5'CCGG 5'GAATTC 
3'GGCC 3'CTTAA G 
I primi non danno possibilità di innesto tra due segmenti di DNA, poiché la loro cesura è netta, mentre i secondi, avendo estremità coesive, rendono possibile l’innesto tra due segmenti di DNA (per questo sono i più utilizzati) [ 41 ]. 
Le estremità tagliate vengono di nuovo saldate assieme (con legame covalente per mezzo di altri enzimi “colla”, le ligasi). 
Ogni tipo di enzima taglia solo in corrispondenza di una specifica sequenza nucleotidica di riconoscimento. Ne deriva che possono esserci sia pezzi lunghi che corti e che un gene di una cellula eucariotica e un plasmide di un batterio, tagliati entrambi con lo stesso enzima di restrizione, si riconoscano e si uniscano perché hanno estremità coesive complementari. 
Le estremità “sporgenti“ dei frammenti si associano e vengono saldate mediante legami idrogeno, generando una molecola di DNA chimerica o ricombinante
Ad esempio l’enzima di restrizione EcoRI, si lega a sequenze specifiche di DNA in doppia elica GAATTC. Taglia in modo sfalsato i legami tra guanina e adenina su entrambi i filamenti (il taglio produce gruppi 3’-OH e 5’-fosfato), generando frammenti di DNA che hanno quattro basi sporgenti in singolo filamento alle estremità 5’. 
Il trasferimento di frammenti di DNA estraneo nelle cellule batteriche avviene a mezzo di un vettore.

     Vettori genici
I vettori genici sono sequenze di DNA di diversa natura (virus, plasmidi batterici, cosmidi, cromosomi artificiali) nelle quali è possibile inserire altre sequenze nucleotidiche. Tali strutture sono in grado di integrarsi con il DNA-bersaglio e di introdurvi il gene esogeno. La scelta del vettore dipende sia dalla natura della cellula bersaglio (animale, vegetale, procariote) che deve ricombinare il suo DNA, sia dalle dimensioni dell’inserto genico che viene ospitato.

In genere i vettori più usati per i batteri (E. coli) sono i plasmidi e i batteriofagi; per le cellule vegetali è un batterio parassita endocellulare di molte specie di piante, l’Agrobacterium tumefaciens, il cui plasmide Ti è in grado di inserirsi nel genoma della cellula vegetale, mentre per le cellule animali si utilizzano prevalentemente vettori di natura virale. 
Un vettore, per svolgere la sua funzione, deve essere costituito da un segmento di DNA detto replicone che lo renda capace di replicarsi nella cellula ospite interagendo con gli enzimi coinvolti nell’avvio della replicazione del DNA, composto da un’origine di replicazione del DNA (ori) e dagli elementi di controllo a essa associati, nonché da uno o più marcatori genetici, come resistenze a antibiotici o marcatori nutrizionali la cui presenza permette di selezionare le cellule ospitanti. 
Al di fuori di queste regioni essenziali (replicone e marcatore) devono essere presenti singoli siti di taglio per il più alto numero possibile di enzimi di restrizione.

     VETTORI VIRALI
I vettori virali sono utilizzati soprattutto per introdurre geni esogeni nei batteri e nelle cellule eucariote animali sfruttando la naturale capacità dei virus di integrare il loro DNA con il genoma cellulare che infettano. In natura, infatti, i virus che, essendo costituiti da un involucro di proteine (capside) di ridottissime dimensioni al cui interno è racchiuso il DNA contenente solo le informazioni essenziali, non sono in grado di riprodursi da soli, penetrano all’interno di una cellula e ne utilizzano le strutture di sintesi facendo sì che sia la cellula stessa ad esprimere le informazioni virali e a sintetizzare centinaia di copie del virus. Durante questo processo possono avvenire scambi tra il DNA virale e il DNA cellulare. 
In laboratorio è possibile pilotare questo fenomeno di ricombinazione tra i due genomi, per trasferire geni particolarmente interessanti nelle cellule. 
Alcuni geni del virus vengono sostituiti con geni utili, di qualunque provenienza, e si aggiunge un gene marcatore per verificare l’avvenuto trasferimento. Il virus modificato è ancora in grado di infettare la cellula ma, anziché sfruttarla e distruggerla, la arricchisce delle nuove caratteristiche desiderate. Ogni virus utilizza le proteine del suo capside per riconoscere e infettare un particolare tipo di cellula. 
I virus che infettano i batteri sono detti batteriofagi o fagi. Quando un fago infetta un batterio può acquisirne frammenti di DNA che vengono ceduti alla cellula batterica ricevente durante il successivo processo di infezione. Il trasferimento di materiale genetico da un batterio a un altro tramite fagi si chiama trasduzione
Il DNA virale di un fago, una volta penetrato in una cellula batterica, può integrarsi nel cromosoma batterico e rimanere in fase latente (profago) per molto tempo senza interferire sulla vita della cellula (ciclo lisogenico o lisogeno) oppure può attivarsi e utilizzare le strutture della cellula batterica per riprodursi e distruggere la cellula ospite (ciclo litico) [ 42 ].

     PLASMIDI
I plasmidi sono i primi vettori genici individuati e utilizzati, soprattutto se il DNA da inserire non è di grandi dimensioni. Sono strutture genetiche tipiche dei batteri, costituite da brevi sequenze anulari di DNA batterico extracromosomiche, capaci di duplicarsi per proprio conto e di migrare da un batterio a un altro. In natura, se sottoposti a stress ambientale (carenza alimentare, antibiotici) i batteri effettuano un processo di coniugazione, con il quale una cellula donatrice (F+) trasferisce copia di uno o più plasmidi a una cellula ricevente (F-) attraverso un ponte citoplasmatico (pilo sessuale). 
Nella cellula donatrice il plasmide inizia a replicarsi a partire da un punto, detto sito di origine della replicazione (ori). Il nuovo filamento penetra attraverso il pilo nella cellula ricevente, la quale duplica a sua volta il filamento ricevuto rigenerando il plasmide completo [ 43 ]. 
Questo processo naturale attraverso il quale alcuni procarioti (detti competenti) sono in grado di ricevere del DNA esterno che dà origine a nuove caratteristiche, è sfruttato in laboratorio per far sì che i plasmidi siano vettori ideali per inserire geni esogeni e farli esprimere ai batteri. È in questo modo, ad esempio, che per la prima volta si è riusciti a far sintetizzare a Escherichia coli insulina umana [ 44 ]. 
Per essere utilizzati come vettori, i plasmidi vengono aperti con lo stesso enzima di restrizione e addizionati per mezzo della ligasi con il frammento di DNA scelto e con geni per la resistenza a vari antibiotici, che permettono di selezionare solo quei batteri che hanno recepito il plasmide [ 45 ]. 
I batteri trasformati con il plasmide contenente DNA estraneo vengono fatti crescere su terreni contenenti uno o più antibiotici, e così solo quelli che hanno il plasmide possono sopravvivere, mentre gli altri muoiono. I geni per la resistenza agli antibiotici sono detti marcatori di selezione mentre il nuovo DNA è detto DNA ricombinante e i batteri, cellule ricombinanti.

FOCUS

I TRASPOSONI 

Un’ulteriore modalità di trasporto dei geni sia negli organismi procarioti sia negli eucarioti è rappresentata dai trasposoni o elementi trasponibili: sequenze di DNA, definito mobile, che sono in grado di spostarsi autonomamente da una posizione ad un’altra del cromosoma. Il meccanismo attraverso cui si muovono è detto di trasposizione e avviene grazie ad un enzima, la transposasi, codificato dal trasposone stesso, che permette il loro inserimento, con un processo di ricombinazione, in zone diverse del DNA. 

Gli elementi trasponibili sono stati scoperti nel granturco dalla genetista americana B. McClintock che per questo nel 1983 ha ottenuto il premio Nobel per la medicina. La maggior parte dei trasposoni degli eucarioti sono detti retrotrasposoni perché traspongono copiandosi dapprima in un intermedio ad RNA che viene poi ritrascritto in DNA attraverso la trascrittasi inversa (codificata anch’essa da un gene del trasposone) e replicandosi poi in nuove posizioni all’interno del genoma. Questo meccanismo permette di incrementare molto rapidamente la presenza delle loro copie all’interno del genoma, aumentando la variabilità genetica e divenendo un importante strumento per introdurre mutazioni.

     COSMIDI
I cosmidi sono vettori artificiali che possono trasportare inserti di DNA di grandi dimensioni (30-45 kbp: kbp è l’unità di misura delle sequenze di acidi nucleici; equivale a 1.000 paia di basi). 
Essi sono un ibrido fra i plasmidi e i virus poiché possiedono il replicone e la resistenza ad antibiotici come i plasmidi, nonché le estremità 5’-sporgenti di 12 nucleotidi, dette terminali coesivi (cos) del DNA del fago l, isolato dalle particelle virali. 
Il fago l è utilizzato per clonare frammenti di DNA lunghi fino a 25 kbp. Normalmente il genoma del fago è lungo 49 kbp, ma viene ridotto eliminando la porzione centrale con enzimi di restrizione che lasciano estremità coesive. I cosmidi ricombinanti vengono successivamente introdotti nella cellula batterica per trasduzione [  46   47  ]. 

     VETTORI NAVETTA (SHUTTLE)
I vettori navetta sono vettori ingegnerizzati che possono replicarsi stabilmente in 2 diversi organismi: sono perciò compatibili con cellule diverse, ad esempio batteri/lieviti o batteri/animali. 
Essi consentono, ad esempio, la manipolazione del vettore nelle cellule batteriche (E. coli) e il successivo trasferimento nelle cellule del lievito [ 48 ]. 

     CROMOSOMI ARTIFICIALI
Oggi sono stati messi a punto cromosomi artificiali con i quali è possibile utilizzare i batteri per clonare grossi pezzi di DNA (200-500 kbp). Essi contengono telomeri, centromero e il sito di replicazione autonoma. Sono cromosomi artificiali: 
YAC, cromosomi di lievito (Yeast Artificial Chromosomes); 
BAC, cromosomi batterici; 
MAC, cromosomi di mammifero; 
PAC, cromosomi P1.

     Trasferimento
Per facilitare l’ingresso delle macromolecole di DNA nelle cellule, sia batteriche che eucariote, comprese quelle umane, sono state sviluppate diverse tecniche basate su metodi chimici e fisici. 
I metodi chimici sono trattamenti con soluzioni fredde di cloruro di calcio, seguito da breve riscaldamento, che rendono le membrane permeabili al DNA. 
I metodi fisici sono l’elettroporazione, il gene gun, la microiniezione
Elettroporazione. Le cellule sono immesse in una soluzione contenente DNA e sottoposte a un breve impulso elettrico di voltaggio elevato (12,5-15 kV/cm) che produce una transitoria apertura dei pori della membrana, dai quali il DNA entra direttamente nel citoplasma [ 49 ]. 
Gene gun (letteralmente, cannone genico) [ 50 ]. Usa vere e proprie pistole che sparano ad altissima velocità nei tessuti particelle di oro rivestite del gene che interessa; queste particelle sono in grado di attraversare la membrana citoplasmatica e quella nucleare rilasciando il DNA nel nucleo delle cellule del tessuto bersaglio. 
Microiniezione. Si usano sottilissimi aghi di vetro, con i quali il DNA estraneo purificato viene iniettato nelle cellule.

     Clonaggio
La replicazione di un frammento di DNA in molteplici copie uguali, utilizzando un microrganismo ospite, viene definita clonaggio
Il segmento di DNA di interesse viene inserito in una molecola di DNA in grado di replicarsi autonomamente (un cosiddetto veicolo o “vettore”). 
Il risultante vettore chimerico (“DNA ricombinante”) è introdotto in un organismo ospite, in genere un batterio, che viene fatto riprodurre in modo da generare una popolazione numerosa: tutti i membri della popolazione conterranno molte copie del DNA ricombinante, ottenendo così quantità elevate del DNA inserito inizialmente. 
La tecnica consiste nei seguenti passaggi. 
1.Isolamento e preparazione del DNAda clonare: il gene d’interesse viene prima di tutto isolato dall’organismo che lo possiede utilizzando la tecnica della PCR (Polymerase Chain Reaction) la quale permette di ottenere moltissime copie soltanto di questo gene, ignorando le regioni precedenti (a monte) e successive (a valle) ad esso. 
2. Scelta e preparazione del vettore
3. Ligazione: specifici frammenti di DNA vengono cuciti tra loro in modo covalente. Nella maggior parte dei casi questo compito è affidato alle ligasi, enzimi che catalizzano la formazione di legami fosfodiesterici tra estremità 3’-OH e 5’-P di molecole di DNA adiacenti, uguali (ligazione intra-molecolare) o diverse (ligazione inter-molecolare). 
4. Introduzione dei vettori ricombinanti nell’organismo ospite: se l’ospite è un procariota, come E. coli, o un eucariota unicellulare, come S. cerevisiae, il metodo è detto trasformazione, mentre si parla di trasfezione se l’ospite è un eucariota pluricellulare. 
5. Inserimento dei marcatori di selezione nel vettore: servono a identificare le cellule trasformate (o transfettate). Si tratta di geni in grado di fornire un fenotipo particolarmente visibile o di permettere la sopravvivenza in certe condizioni ambientali, come i marcatori che conferiscono la resistenza a un antibiotico, per il quale l’ospite utilizzato è sensibile. Solo le cellule che contengono il gene di resistenza all’antibiotico saranno in grado di vivere in un terreno contenente quell’antibiotico e di crescere e replicarsi cedendo anche alle cellule figlie il vettore di clonaggio. 
6. Riproduzione del clone trasformato e conseguente amplificazione del numero di copie del DNA di interesse: i nuovi batteri, che contengono DNA di diversa origine, vengono chiamati batteri o cellule ricombinanti. Le cellule ricombinanti vengono prodotte su larga scala con una tecnica definita fermentazione. La proteina così ottenuta (quella codificata dal gene inserito nel plasmide) in grande quantità sarà purificata ed analizzata per determinare l’eventuale presenza di contaminanti. 
7. Analisi del DNA clonato mediante sequenziamento.

FOCUS

SIGNIFICATO DI CLONE

Il termine clone assume significati diversi a seconda del contesto in cui viene usato. Se ci si riferisce all’intero organismo, un clone è un organismo vivente geneticamente identico a quello da cui deriva. In biologia cellulare, invece, sono cloni i gruppi di cellule perfettamente identiche fra loro. In biologia molecolare, infine, sono cloni le repliche identiche di una macromolecola (DNA) o di tratti di essa.

     DNA e RNA antisenso
Così come è possibile identificare il gene, isolarlo, inserirlo in un batterio perché esprima la proteina a noi utile, è anche possibile riconoscere il gene e disattivarlo o modificarlo selettivamente. 
Il metodo consiste nel costruire in laboratorio dei frammenti di DNA costituiti da un piccolo numero di nucleotidi, almeno 16-18 basi, detti oligonucleotidi antisenso
Introdotti nella cellula, gli oligonucleotidi antisenso catturano l’mRNA e si legano ad esso formando zone dette di duplex artificiale o ibrido. Lo stesso risultato si può avere anche con molecole di RNA dette antisenso [ 51 ], che si legano all’mRNA senso delle quali sono complementari; anche in questo caso si forma una zona di duplex. È il duplex artificiale, che impedisce meccanicamente all’RNA di legarsi al ribosoma. Esso diviene bersaglio di alcuni enzimi, le ribonucleasi (RNAsiH), normalmente presenti nella cellula, che lo riconoscono e lo disintegrano. 
Gli oligonucleotidi antisenso, interrompendo la sequenza che consente al gene di esprimersi nella specifica proteina, possono essere utilizzati per fabbricare nuovi farmaci con azione: 
- antivirale, quando la proteina bersaglio è quella del virus essenziale alla sua moltiplicazione; 
- antitumorale, quando la proteina bersaglio è quella essenziale alla crescita delle cellule tumorali. 
Dal 1978, quando fu reso noto il primo esperimento, e soprattutto dalla metà degli anni Ottanta, notevole è stato l’interesse per la ricerca di questi nuovi farmaci, ma sono molti gli ostacoli che chimici, virologi, oncologi incontrano e che devono di volta in volta superare. 
Finora si sono ottenuti risultati soddisfacenti nell’arrestare lo sviluppo di un virus, il citomegalovirus [▶A8], che porta alla cecità individui immunodepressi; anche in campo oncologico questi farmaci si sono rivelati efficaci nel curare una forma di leucemia in individui che non avevano risposto positivamente alle cure tradizionali [ 52 ]. 
Il DNA e l’RNA antisenso vengono utilizzati anche nella produzione di organismi transgenici.

APPROFONDIMENTO 8

Il citomegalovirus (CMV)

Si tratta di un virus assai comune in grado di infettare persone di tutte le età. Una volta entrato nell’organismo, il virus ci rimane per tutta la vita ma, nella maggior parte dei casi, l’infezione rimane anonima, cioè chi è infetto non presenta alcun sintomo. Tuttavia, il virus può causare anche seri disturbi sia a livello fetale (nelle donne in gravidanza) sia nei pazienti con problemi conclamati di immunodeficienza. Il citomegalovirus appartiene alla famiglia degli Herpesvirus: questa comprende anche i virus dell’Herpes simplex e quelli che causano la varicella e la mononucleosi. 

Chiunque può contrarre un’infezione da citomegalovirus, ma nella maggior parte dei casi (adulti e bambini) i sintomi sono di lieve entità. Il contagio può avvenire: tramite contatto interpersonale (baci, rapporti sessuali, contatto con saliva o urina infetta se subito dopo si toccano le mucose degli occhi o dell’interno delle narici); allattamento al seno da parte di una madre infetta; oppure da madre infetta che trasmette il virus al feto durante la gravidanza; trasfusioni e trapianti.

NUOVE Biotecnologie Agrarie e Biologia Applicata
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